1.
A lungo quella certezza irritante ci si è incollata alla faccia, saremmo cambiati per sempre, tutti dandoci il gomito, con le mascherine di riserva pronte nella borsa: è incredibile pensarci adesso che sono passati dieci anni dalla pandemia Covid. Mi ricordo verso il 20 febbraio, prima dell’inizio, stavo ascoltando il vocale di un’amica friulana. Doveva raccontarmi un weekend in Marocco, ma la voce tremava per i contagi che esplodevano intorno a lei. Abitando in Puglia il brivido di impotenza che girava nel Nord Italia veniva praticamente dall’iperspazio. Io ho ignorato l’allarme, ma a ripensarci è chiaro che la sentivo, l’attesa di questo caos dall’alto a poco a poco mi ha messo le vertigini come niente altro dopo. Per mostruoso che vi sembri, a marzo i camion di bare che attraversavano Bergamo mi hanno rassicurato. La morte sullo schermo non è stata spiazzante come il prima senza nome: quei corpi ultraottantenni (e tutti, ricordiamolo, con comorbilità) facevano scudo fra me e l’annientamento, erano la realtà attesa alla distanza giusta, per assurdo mi ha sollevato come guardare quegli altri, i disperati, annegare a due passi da Lampedusa, era il segno che non toccava a me. Cinque giorni dopo, nel panico di fine febbraio ho giurato che se ne fossimo usciti – non migliori, solo vivi – avrei fatto un figlio con Stella. Convivevamo da meno di un anno, la decisione l’ho presa un pomeriggio dopo pranzo che dormivamo abbracciati. Mi sentivo male dalla mattina, avevo un’emicrania diffusa, coi brividi in fondo alla spina dorsale: all’epoca, dei sintomi si sapeva poco o nulla. Non avrò mai la certezza. Ma a un certo punto le sue gambe mi hanno fatto un nodo in vita. Il Moment non mi aveva fatto nulla, l’ultimo sole invernale sul copriletto sì: ho sentito con chiarezza la testa spaccarsi dentro e poi le due metà di nuovo combaciate, con un incastro che nessuno ha sentito. Stella ha tenuto gli occhi chiusi per ore e non saprò mai di che si è accorta. Come ci è andata poi, molti lo sanno; ma in generale fino alla fine dell’emergenza non ho più badato a contagi, mascherine, bollettini e contatti con positivi, e che io sappia il Covid non l’ho preso, mai una quarantena. Quando amici e familiari a ogni zona rossa mi chiedevano come mai fossi così tranquillo, non ho potuto dire la verità.

2.
Montelago, primo viaggio da maggiorenne, ero in tenda con Velia, di un’altra classe, mi aveva parlato del festival celtico («ma davvero pensi che mi piacevano gli hobbit?»). Una notte, mentre la nostra comitiva conversava in elfico di fedeltà, tradimento e felicità domestica, ha fatto lei la prima mossa sul fianco, poi la lingua. A me è andato bene, e quasi subito mi è stato chiaro che potevo essere quella cosa lì. Ci ho costruito intorno la mia identità: siamo andate a vivere a Roma, prima come coinquiline d’università, poi compagne con una quota adulta di drammi. Da domani, dopo dodici anni, sposate con la cerimonia in comune. Non c’è stato molto da discuterne: non mi sembrava sano, anzi direi morale avere dubbi, con l’enorme tempo bruciato da giovane a venire tenuta fuori da tutto. E Velia rappresenta il posto perfetto in cui è giusto stare, oggi, per me: suonava bene ieri, lo ripeto ad alta voce oggi nel discorso al ristorante cinese dell’Esquilino, con il nostro gruppo di amici stretti. Di fronte all’altra tavolata sette cinesi di mezza età stanno chiacchierando. Li sento felici in una lingua che non conosco, e più dentro nella testa, verso la gola, mi tìntica una domanda che alla tavolata non volevo fare. Mi chiedo se le donne mi siano mai piaciute sul serio. Mi frulla in testa la domanda su che succederebbe a staccarmi, adesso, da Velia: quante altre scelte potrei avere, o avere avuto? Lo so, me lo ripete anche il secondo biscotto della fortuna («omaggio della casa! Viva gli sposi»), che ogni persona ha due vite, e la seconda inizia nel preciso attimo in cui ti rendi conto che ne hai una sola. Questo attimo inizia e finisce domani, penso alzandomi in piedi e andando a pagare per tutti: starò sempre al suo fianco, ovunque mi metterò dalla nostra parte, la sosterrò quando scenderemo nei momenti tristi, sarò leale quando non potrò essere fedele, allargheremo la famiglia se ci sarà permesso, lo voglio così con una convinzione che non mi sembra di aver provato neanche a Montelago, e allora perché, nella sola lingua che ho, al tempo presente non riesco a farmi carico di nessuna di queste parole?

3.
È finita dopo neanche tre anni. Per ragioni direi indiscutibili. Sulla questione figli-no-figli naufraga il matrimonio più felice. La versione nota a tutti è che la mia decisione di interrompere la gravidanza è stata un colpo troppo duro per lui, per tutta la sua famiglia. Da un certo punto di vista quasi se l’aspettavano che facessi una cosa del genere, anche se non hanno mai avuto la faccia di dirmelo. Dei due, ero io quella che va come un treno, che non si può fermare mai e riesce a portarsi tutti dietro. Lo dicevo ovunque senza problemi, del resto, che a trentasei anni mi vedevo troppo vecchia per fare un figlio e troppo giovane per non provare a fare carriera sul serio: non volere un figlio era parte dei piani. Io comunque se devo dire credo che la fine sia arrivata quel giorno che per prendere i panni dalla lavatrice ho sbattuto forte col fianco sullo sportello aperto a tradimento. Credo che sia in parte per colpa sua, se il pomeriggio mi sono alzata dal divano e ai miei piedi non avevo mai visto il tappeto così rosso. Adesso che è passato quasi un anno sono abbastanza serena. Un’amica trova che sono in una fase di riappropriazione di me. Esploro i dintorni e faccio arrampicata al chiuso. Ho lavorato molto sul mio profilo e così rimedio due-tre uscite a settimana. Non lo faccio per il sesso o per i dimenticabili fatti degli altri, per non fare agosto da sola. Mi serve per trovare nuovi appigli in questa città troppo grande: e vedere di trovare qualcuno, se succede, con gli occhi color ambra. Statisticamente sono rarissimi. Mio marito li aveva, per esempio. E quando in una di queste uscite serali trovo un uomo, un cameriere, o una passante, persino uno seduto a un altro tavolo, che sono certa ha quegli occhi, il tempo rallenta e tutto prende una prima luce. Allora sto zitta, mi concentro su quella persona, aspetto che parli. Decido che avrai tu la sua voce, e così fino a domani sto bene.

4.
Da che ho memoria lotto con questa cosa, una specie di strano vomito che è come se avesse denti, che non posso cavare e mi morde dentro la gola. Anche oggi va pressappoco così male: sono al secondo appuntamento con Alex, per telefono avevamo urlato a turno per delle cazzate e ha preteso di rivederci per darmi indietro i vestiti lasciati a casa sua. Perciò ho proposto io il luogo, e ora, sei e mezza, siamo sulla cima del roseto al Circo Massimo, coi cancelli già chiusi. Appena mi ha visto Alex mi ha sbattuto in mano la tuta, impacchettata con disprezzo, eppure a poco a poco ho visto uno spiraglio alla sua sorpresa. Venendo da fuori Europa forse al massimo si aspettava una rosa, non un intero campo di fiori offerto gratis, come gesto di pace: e vedo che non vorrebbe sorridere così tanto. Una piccola camminata silenziosa e, nonostante sulla panchina dove ci siamo appoggiati avesse a disposizione quasi mezzo metro di marmo libero, ha deciso di sedersi proprio sulle mie ginocchia.
Ecco, per la prima volta capisco che mi trovo in un momento di bellezza irripetibile: così arriva la paura. Da che ricordo la vita quotidiana è sempre stata un accompagnamento dissonante a qualche schifo passato o a venire. La depressione a grandi linee la sapevo: ma non sono preparato ad affrontare la volta che fuori da questo tutto intravedo ciò che preme oltre i confini. Il fatto stesso che io possa dirmi senza bugie che ora sono felice, mi rovescia lo sguardo. Non sono sull’orlo del baratro, come ho spergiurato finora, per un minuto immenso ho la certezza di essere io il baratro, e dal profondo sto guardando altissime tutte le cose affacciate su di me. Il terrore della certezza che perderò tutto questo è peggio di qualunque sprofondo che ha rovinato gli ultimi dieci anni della mia esistenza, che mi ha avvelenato la convivenza in casa, mi ha fatto perdere quel lavoro in segreteria e mi ha costretto a vendermi le chitarre, poi i libri, infine la macchina, per mettermi in un monolocale in affitto fuori dal Raccordo. Ora che sto precipitando io amo tutto con una lucidità che non avrò più in seguito, neanche quando fra due anni cambierò città e ricucirò coi miei genitori, con mia sorella. Neanche quando da qui a meno di dieci anni mi sarà dato il lavoro che inseguivo. In pochi secondi scopro visivamente la felicità in un modo che non saprò ridire, e che adesso non ce la faccio a tacere. Strano mi venga in testa così, perché le rose, distribuite sul terreno, non stanno dentro una serra, però so che la felicità è questo vetro di trasparenza impura, che dà sull’altra parte, e mi permette di guardare quella cosa nella sua forma reale, un diaframma fra me e quanto infine riuscirà a triturarmi via ogni materia, ogni briciola di coscienza. Questa cosa che chiamo ora mi soppianta, da ora in poi sarà per me ora ogni momento, fino alla fine, e non potrò più ricordare, più prevedere nulla. Amo persino Alex, si rigira verso me con curiosità non più ostile, e mentre ho il vetro negli occhi si allontana per prendere due birre al gazebo. Annuendo amo quella gatta bianchissima, vistosamente gravida, che è sbucata dalle spine verdi e porpora priva di un occhio, e ha preso a fissarmi con una concentrazione umana, sapendomi solo. È l’animale più intenso che abbia mai visto. Passiamo troppi secondi a guardarci. Ancheggia verso i miei piedi, ormai a meno di mezzo metro dalla panchina. Si ferma abbastanza vicino da vederle l’orbita cicatrizzata. La ferita mi strizza un messaggio di complicità che non riesco a interpretare del tutto; la paura sta per prendermi i movimenti delle mani. Prima che apra la bocca e dica qualcosa, in una lingua che chi se non io può averle insegnato, sarò via da qui.