Le mani dell’uomo, degli esseri umani, non sono fatte per scrivere, per coccolare gattini, per coltivare fiori, fare ditalini. Sono fatte per impugnare grossi spazzoloni del cazzo e pulire pavimenti dove ragazzini educati e cattolici hanno fatto cadere la marmellata, i pastelli, buste di plastica. Le mani degli esseri umani, adeguatamente guantate, sono fatte per pulire cessi con le spugne, per asciugare stoviglie, per sollevare sedie, spostare tavoli, torri di pentole. Le mani dell’essere umano sono fatte per agguantare grosse scatole di cartone, per guidare montacarichi, per affettare verdure, lavare panche, pattumiere, latrine, spaccare la legna. Le mani dell’essere umano, col pollice opponibile tristissimo, sono fatte per agganciare certi cassoni di plastica in cui a trenta a trenta sono infilate le teglie dentro cui qualcuno ha cucinato quello che qualcun altro ha mangiato, una pasta al forno slavata. Le mani dell’essere umano sono orrende, la sera. Sono bruciate, tagliate, bucate, graffiate, sfinite, secche come delle cazzo di foglie. Beninteso ci sono mani diverse, ma le mani davvero, la maggior parte davvero, sono mani così. E perché tanto baccano? Già, perché tanto baccano? Anche le braccia sono fatte non per le pose, le foto, gli abbracci, le arti. Ma per sollevare sacchi pieni di calce, armadi, divani da assemblare, e avete certo capito che anche le gambe sono fatte per cose del genere, e anche le ginocchia, la schiena e i polsi, i polsi, signoreiddio: gli ammortizzatori misconosciuti del corpo, le scatole nere, i cervelli nascosti del corpo nel corpo. I polsi fanno male parecchio.
C’è chi lo fa e basta e poi c’è chi lo fa per un motivo. Per la famiglia ad esempio, e quindi si sacrifica, parola grossissima, come Albert, cinquantenne di Haiti, camionista per trent’anni, ora lavapiatti: un figlio dottore negli Stati Uniti, un altro basketball player, la figlia in un highschool privata a New York. C’è chi lo fa perché non sa fare altro e chi lo fa perché non può fare altro. Come Lila, ventiseienne libanese che non sa mezza parola di nessun’altra lingua a parte la sua, che qui non parla nessuno, adesso anche lei lava i piatti. Poi c’è chi sceglie di farlo perché una cosa vale l’altra, perché è giovane, perché gli va bene tutto. Come Demba, diciassettenne di Poitiers, immigrato africano di seconda generazione che non vuole andare a scuola e chissà che cos’hanno fatto i suoi genitori: ora anche lui lava i piatti, gli va bene così. Poi c’è chi lo fa per amore. Per amore di un sacco di cose. Trovare un lavoro significa trovare un modo per sopravvivere e per sopravvivere va bene un lavoro qualsiasi. Per amore va bene un lavoro qualsiasi.

Ormai è quasi un mese che sto qui. Saranno le nove di mattina ed esco di nuovo. Tira un vento del cazzo, un vento gelido dall’oceano che insieme alla pioggia che scende lieve e quasi costante soffia freddo e pure lui stabilmente. Qui sole mai, o a timide occhiate, e poi vento sempre, pioggia quasi sempre. Così è Nantes, Francia, Loire-Atlantique: benvenuti. Bel posto, tra parentesi, ma il clima non è di quelli invidiabili. Me ne accorgo anche io, che il cielo grigio mi piace parecchio, che la pioggia mi piace parecchio, che il freddo mi piace parecchio. Tutto insieme però, e con questa costanza diabolica, con questo vento dannato che disperde anche i discorsi più azzeccati, che brucia sempre dietro le orecchie come una frustata e spinge contro i calcagni, con questo vento atlantico bastardo che ti azzanna anche sotto il cappello il maglione il cappotto, che ulula e tuona dentro tutte le vie, con questo vento ubiquo, incazzato come un sicario, che ti pianta le zampe gelide in faccia, credete: molto poco gradevole. Questo è febbraio comunque, bien sûr. E tutto gennaio è stato così. Qui poi mi dicono che anche marzo di solito è uguale, e che pure aprile per metà sarà uguale, ma che poi il tempo dovrebbe darsi una regolata, un giro di vite senz’altro. Ma da queste parti si dice anche così, si dice: se non ti piace il tempo di Nantes, aspetta quindici minuti. Ed è vero, la copula oscena delle nubi si agita tanto nel cielo che il meteo cambia ogni venti minuti. Ma la costanza indiavolata del vento rimane.
Sotto casa c’è di tutto ma pare che nessuno abbia bisogno di niente, di certo non di uno scrittore smunto, alcolizzato, scontroso e italiano, che non sa parlare francese, ma che bisogna dirlo si impegna. Così esco, suppongo, come un giaguaro da guerra che va a caccia nel suo habitat, quale che sia l’habitat dei giaguari da guerra di questi tempi; quest’habitat qui invece è diventato il mio oramai. E mi accorgo di tutto, di ogni movimento, osservo i cartelli, cerco gli annunci, gli sguardi amichevoli, i locali papabili, gli angoli insoliti, le panchine appartate, gli scorci un po’ strambi, così nordeuropei, medievali e mistici, a tratti. Le agenzie di lavoro le ho battute tutte, mi hanno offerto perlopiù lavori al porto di Rezé, a sud: scaricare pesci congelati da un milione di chili, cacciarli in grosse celle frigorifere a meno venticinque gradi centigradi. Lavori saltuari, a chiamata. Li ho fatti, mi hanno pagato. Ho finito i soldi, mi hanno richiamato. Ho scaricato il pesce, mi hanno pagato, mi hanno richiamato e via così. Ma quando richiamano? Non si può stare ai comodi altrui, o a quelli del pesce. Il problema è la lingua, la “barriera linguistica” come si dice di solito, come dice anche Giuseppe, pizzaiolo di Messina che sta qui da trent’anni. Ma a gesti ci si capisce lo stesso ovviamente, come le scimmie. Se devi scaricare il pesce i gesti sono sufficienti. Ma se già appena appena devi parlare di ordini d’acquisto, di bolle di spedizione, di inventario sei fottuto. E anche se questa cazzo di lingua non è così strana – non è mica swahili – io scarico il pesce, perché loro non sanno l’inglese e allora i gesti per il momento sono la mia unica lingua, come appunto le scimmie, e riflettere sulla semiosi della gestualità a un tratto mi sembra… sciocco. Ricordo anni fa, Alu, senegalese venticinquenne come sono io adesso, allora con due lauree come le ho io adesso, parlava cinque lingue, ma non l’italiano: fuori dall’Università di Milano vendeva fazzoletti e accendini.

Di notte scrivo, la donna che amo e mi ama vive con me. Questa è la cosa migliore, cioè quella buona, l’unica credo. La nomino solo ora, la donna che amo e mi ama, dopo il pesce, non perché sia meno importante nel quadro generale, questo è chiaro, dato che per lei sono qua, ma perché il pesce, simbolo privato delle mie disavventure, mi angustia maggiormente. Il pesce mi angustia, signori… Amore mio grande, il tuo uomo è tornato (batte i piedi per terra), il tuo uomo ha bevuto (sempre batte coi piedi per terra, un grande fracasso, un grande sorriso), il tuo uomo ha scritto, è contento (la prende in braccio, la fa girare e sempre coi piedi batte per terra), il tuo uomo ti vuole, vuole fare l’amore (lei ride, lui anche, finiscono a letto). Questa è la parte bella.
Il megarullo trasportatore che trasporta di tutto e sputa duemila gradi. Da un lato entra la roba sporca, dall’altro esce incandescente e pulita. La roba viene giù come il tetris, e se non fai in tempo a sistemarla tocca il fondo del gioco, cioè il limite del rullo, e la macchina si blocca, attacca a gridare, suona un allarme, una luce rossa lampeggia, e tu quindi corri, con sessanta vassoi per braccio, che pesano un quintale del cazzo. Li appoggi e sblocchi la macchina, e altra roba scende dall’alto, proprio come in un tetris malato, infernale. Tre ore dopo hai finito. Ora devi lavare i pavimenti. E i cessi. E i bidoni dell’umido. L’odore è rivoltante, ti brucia fin dentro il collo del naso. Ti viene da piangere perché un odore del genere non pensavi esistesse, ed è molto peggio quello dell’umido di quello dei cessi. Ma quell’odore esiste, sta lì nel tuo naso, ed è affar tuo farlo sparire: a colpi di getti d’acqua e sapone, a colpi di spazzola, di spugna, di olio di gomito, e i polsi fan male, fan male le ginocchia e la schiena, e i tendini degli avambracci tesi come elastici in fiamme. Hai una gran voglia da rovesciare tutto per terra, di sfasciare le piastrelle a testate, però poi qualcuno ti passa accanto, ti rivolge un sorriso sdentato, una manciata di denti rovinati dentro una bocca scura, e ti dice ҫa va? e tu dici ҫa va, ҫa va bien, c’est bon, e pulisci per terra, fai splendere il locale immondizia, e il giorno dopo rinizi, il giorno dopo continui, mentre vorresti soltanto sederti per terra, fumare una foresta di sigarette e poi vomitare, ma poi dovresti pulire, e in realtà stai cercando di smettere. Quanto farà caldo, qua dentro, d’estate?

E gli studenti di ingegneria, gli studenti di architettura ti ringraziano: bonjour, bon weekend, bonne journée. Parole educate, pelle profumata, sorrisi amichevoli, occhi brillanti. E tu gesti meccanici, parole meccaniche, parole altrettanto educate e gentili, duecento al giorno o duemila, tutte uguali. Le tue parole però, a differenza delle loro, sono fantasmi, non hanno più significato, bonjour bon weekend bonne journée – studenti come te, peggio di te? Un alacre messicano al tuo fianco a un tratto ti porge un caffè, una pinta più o meno, mentre lava i vassoi. Grazie a Dio, sì, merci, mi serviva un caffè, anche se qui lo bevete annacquato, merci baoucoup, grazie davvero. Poi finisci, vai verso i cessi, ma appena dietro l’angolo incontri Magda – triste enorme donna africana dal seno potente – Magda che è quasi nascosta, che ti dice a gesti e con gli occhi vai piano, non c’è motivo di darsi tanto da fare, tra mezz’ora abbiamo finito. Magda che cerca di sparire, Magda che dice con gli occhi non correre, Magda nascosta, Magda che è stanca. Magda che indossa una maglietta nera XXL, con sulla schiena scritto in capital letters TIME FOR HAPPINESS.
La mattina seguente, alle cinque, dalla finestra, ti sei appena alzato: vedi nella notte gelida e scura, molto prima dell’alba, sotto i lampioni, un uomo irrigidito che cammina per strada. Probabilmente va al lavoro, sembra un soldato, starà congelando. Sia il tempo che i soldi, pensi in quel momento, sia il tempo che i soldi ce li lasciamo alle spalle, e incontro al futuro, che non esiste, andiamo a mani sempre più vuote, come quest’uomo irrigidito per strada, con sempre più tempo e soldi alle spalle, come soldati. Il futuro è un congegno, una specie d’idea da coglioni. Ma per amore, per amore di un sacco di cose, un lavoro qualsiasi: si può sopravvivere.