«Ah, non lo so. Potrei chiederti la stessa cosa». È la risposta preferita di Jon Fosse, Premio Nobel per la Letteratura nel 2023, a ogni domanda sul significato dei suoi libri. Nei quali, lo sottolinea più volte, si inoltra incautamente, da straniero, quasi come noi lettori. «Non so cosa vogliano dire. Non interpreto mai le mie opere, perché non scrivo per esprimermi ma per allontanarmi da me stesso. Per rifugiarmi in un’altra vita, che non conosco. I romanzi sono universi a sé: io li inizio e poi, semplicemente, lascio che continuino, e che a un certo punto finiscano». È un’immagine suggestiva, che in un certo senso spoglia Fosse dei panni del genio per calarlo in quelli del mistico. Noi giornalisti che, in questa mattina di inizio giugno, siamo seduti intorno a lui in un hotel del centro di Milano, dove Fosse si trova per partecipare alla venticinquesima edizione della Milanesiana, vorremmo saperne di più, scavare nel suo rapporto con la religione, con la politica, coi grandi maestri della letteratura. Ma non si può: è concesso supporre, a questo tavolo, ma non interpretare. Perché il maestro norvegese, autore della Settologia e di Melancholia, tra i più grandi drammaturghi contemporanei, dichiara di non essere realmente padrone di ciò che fa né del proprio talento; i libri non sgorgano da lui, ma gli passano attraverso. «Ho come la sensazione che siano già stati scritti, e di doverli solo trascrivere, concretizzare. Sono il loro tramite. È come accogliere un dono».

L’ultimo fra questi doni si chiama Un bagliore, e in Italia è pubblicato come altri suoi testi di narrativa da La Nave di Teseo, in una traduzione di Margherita Podestà Heir. In linea col resto dell’opera di Fosse, la sua bellezza risiede nell’inafferrabilità: del senso, della prosa, della storia. L’unica certezza è che parla di un uomo disperato perché, come molti di noi, fa il contrario di quello che dovrebbe:

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