Lo scorso gennaio, nei giorni in cui compiva cinquant’anni, Paolo Maccari ha pubblicato con Elliot il suo primo romanzo, Ballata di Memmo e del Biondo. Chi segue la letteratura italiana contemporanea lo conosceva come un critico raffinato e soprattutto come uno dei nostri maggiori poeti, precocemente tenuto a battesimo da Luigi Baldacci e Giovanni Raboni; ma poteva già scommettere anche sulle sue notevoli doti di narratore. Nelle raccolte poetiche, sintetizzate nel 2019 in I ferri corti, Maccari aveva infatti disseminato certi racconti degni di figurare nella più intransigente antologia della nostra prosa. Si trattava di pezzi brevissimi, o di torsi romanzeschi, che confermavano un’eccezionale prensilità psicologica e una ricchezza di mezzi mai gratuitamente squadernata, ma sempre utilizzata per aderire nel modo più fedele e perfino scabro alla cosa da dire. In questi racconti – che spesso, per la pregnanza simbolica raggiunta senza abbandonare il piano referenziale, fanno pensare a Tozzi o a Landolfi – si trovano alcuni temi ricorrenti. Ci sono gli adolescenti che alle sconfitte sul campo, o a un’inferiorità fisica e mentale, oppongono vendette oniriche e imprevedibili acting out. Ci sono i minorati e i malati, a cui si affida più direttamente la domanda sull’insensatezza del dolore. Ci sono le donne che si lasciano andare a una stordita corruzione; e più in generale, ci sono le figure attraverso cui l’autore esprime sia l’accensione emotiva per un’umanità inerme, sia il fallimento al quale è destinato qualunque tentativo di sottrarsi alla complicità col male. A volte Maccari fa risaltare questi temi con uno stile da referto, e a volte invece si apre al monologo o al dialogo. È un tratto che non stupisce il lettore dei suoi versi. In tutta la sua opera si avverte la presenza del teatro, che serve a delineare memorabili ritratti e autoritratti: il che equivale a dire che siamo di fronte a uno scrittore morale. 

Non a caso, gran parte delle pagine

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