Qualcosa di incombente, minaccioso ed enigmatico circola in Pharmakon, il nuovo libro di racconti e fotografie di Teju Cole, uscito negli scorsi mesi per l’editore Mack. È depositato sulle parole e sulle immagini. E per quanto tutto sembri una ricerca verso o lungo la superficie delle cose e delle relazioni tra le persone, l’allusione è all’abisso che ogni esteriorità insieme nasconde e spalanca.

«A volte, quando apro gli occhi nel buio, ho la sensazione di aver dimenticato qualcosa. (…) Ora può darsi che mi ci stia avvicinando. Forse, finalmente, ne tornerò in possesso, troverò le parole, lo metterò su carta e infilerò quel pezzo di carta sotto la tua porta. Forse, finalmente, la cosa dimenticata tornerà in superficie.»

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Teju Cole, from Pharmakon (MACK, 2024). Courtesy of the artist and MACK.

Quando gli hanno chiesto di queste short stories – lo ha fatto Deborah Treisman intervistandolo sul “New Yorker” per accompagnare un’anticipazione – Cole ha risposto che un racconto riuscito è «something more open-ended and intense»: «qualcosa di più aperto e più intenso». E cosa immaginiamo oggi di più potente, risonante e anche disarmate che prigionieri e (possibili) sans papiers, autorità irraggiungibili o al contrario leader tratti in arresto – esseri in eterna attesa oppure trascinati via?

In questi testi brevi, spesso brevissimi, con figure tra lo shakespeariano e il cristologico, dialoghi smaccatamente beckettiani e atmosfere che oscillano da Kafka a Hunger Games, i personaggi entrano in scena come fossero delle comparse. La narrazione,

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