Il tardo pomeriggio di un venerdì ricominciò a piovere. Le gocce cadendo sul deserto arido e spaccato – il panorama fisso di tutti quegli anni – evaporavano frizzando come su una lastra rovente. Guardai a lungo l’acqua e la terra lottare in una nebulosa chiaroscura finché non si crearono i primi atolli di fango. Piovve per giorni, con scrosci tropicali, e vidi i più begli arcobaleni della mia vita. Non cominciai subito a aumentare, sia pure moderatamente, le risibili razioni d’acqua che mi ero imposto fin dalla grande siccità, perché non potevo immaginare che fosse l’inizio di un nuovo ciclo, e che sarebbe durato. Se devo dire ciò che, in quei giorni di quella nuova liquida manna dal cielo, mi commosse di più, fu vedere le formidabili schegge dei grandi specchi – che erano stati distrutti dai sommovimenti di popolo circa due anni dopo l’inizio della grande siccità – imbrattate di quell’acqua impertinente, sfacciata. Ci passavo sopra i polpastrelli e poi, senza ingordigia, me li leccavo, trattenendo il sapore e dell’acqua e di quei sacri vetri infranti. I grandi specchi furono installati da un certo Parker Domyne, un artista che lavorava con la luce, divenuto nel volgere di pochi mesi un leader seguitissimo, il quale sosteneva che i suoi specchi, disposti secondo schemi arcani in punti strategici del globo, avrebbero deflesso il calore divenuto intollerabile. Il Domynismo contava, al momento della grande ecatombe, molti milioni di seguaci che, sorprendentemente, gli rimasero fedeli fino all’ultimo, difendendo a prezzo della vita le sue opere. I rivoltosi, avuta la meglio, procedettero a infrangere i grandi specchi per subito accanirsi sulle schegge: temevano anche queste, e, così, tutte le volte che poterono, le polverizzarono. Molti di loro spirarono tentando con le ultime forze di sbriciolare un pezzetto di vetro non più grande di una caramella, altri di triturarlo con i molari per poi sputare quella polvere ispida in bolle di sangue già secco. Gli sparuti Domynisti superstiti andavano in cerca di quelle deiezioni come fosse un nettare sacro. Nonostante questo, in giro ci sono ancora frammenti abbastanza ragguardevoli dei colossali pannelli che, impropriamente, Parker Domyne chiamava i Cristalli del Salvatore. Forse soltanto ora, che non servono più a nulla se non a ricevere le gocce d’acqua che li rigano e li squamano, potrebbero prendere un nome tanto pomposo, per nessun’altra ragione che tutto, adesso, sembra Qualcosa del Salvatore. Del resto, chi ha la scienza di escludere del tutto che quei Cristalli, sia pure con una misteriosa sfasatura temporale, abbiano infine invertito il processo termico?

Adesso tutto partecipa del nuovo ciclo ma la cosa più incredibile è che ne sono compreso anch’io. Morirò, certo, ma non per la catastrofe che ha spazzato via la mia specie insieme con tutte le altre, e questa selezione che mi ha favorito, come la realizzazione di una fantasia infantile di onnipotenza, è curiosa, e rende enigmatica la mia presenza e ogni sua manifestazione: ogni tanto fisso le mie mani in uno stato di meraviglia, agito le dita e non capisco dove sia nascosto l’incantesimo. Raccolgo, scegliendoli, frammenti di vetro con l’intenzione di farmene una collana portafortuna; non ne ho mai portata una, pensavo che sarei stato ridicolo o che semplicemente una collana fosse un ornamento che non corrispondeva alla mia personalità, ora entrambe le obiezioni sono irrilevanti. Adesso, ridicola è solo la teoria di pregiudizi e pensieri che mi avvolgeva quando non avevo il coraggio di fare niente che andasse contro certe mie fisime, certe ostinate e rassicuranti chiusure. Alcuni amici le chiamavano superstizioni, forse con la buona intenzione di alleggerirmi il peso dei vincoli invisibili circa ciò che sentivo lecito o illecito fare in base a questo o quel colore, rumore, disegno, oggetto, o avvenimento più complesso. Ora è come essere rilanciati nel mondo dalla grande e misteriosa mano dell’impulso iniziale: tutto il passato può essere contraddetto, meglio, cancellato.Anche gli scrupoli, le fobie. Forse sono troppo severo con il me stesso dell’epoca degli uomini, forse facevo bene, per quel che mi riguardava, a non indossare una collana. Ma ora nessuno può vederla, e dunque indossarla vuol dire soltanto indossarla e non sfoggiarla, e questo è un gioco che mi piace. Raccolgo i vetri delle dimensioni e delle forme adatte senza ancora avere il filo, e senza sapere come collegare quelli a questo, ma sono certo che non sarà difficile. Ho dedicato gran parte del primo giorno di pioggia alla collana e sono stato bene, molto bene, è scomparsa anche la misteriosa prostrazione che mi accompagnava da tanto tempo. La mia dottoressa, al telefono, aveva parlato di “affaticamento cronico” e suggerito delle pastiglie di integratori; nessuno diceva con chiarezza che le nostre ali di Icaro cominciavano a liquefarsi. Ricordo che, senza sapere bene perché, mi dissi anche, mentre la pioggia scrosciava, testando il volume e il timbro della voce perché non fosse troppo patetico: «Mi sento un Cro-Magnon, non un moderno sapiens, da oggi mi dimetto da sapiens moderno: sono un Cro-Magnon». Ricordo altri pensieri strani e bizzarri che mi resero felice come non lo ero stato da moltissimi anni, un effetto che mi fece corrugare la fronte di stupore. Sembrava che, in equilibrio con la natura, anche quei pensieri piovessero sul cervello troppo a lungo disseccato.

Le leggi contro il turismo furono accolte con entusiasmo, finalmente l’umanità dava segni di avere imboccato la strada giusta. Restare nel proprio paese, fare le vacanze all’interno dei propri confini o meglio ancora della propria città, evitare di solcare mari e cieli bruciando combustibile e inquinando l’ambiente fu uno stupefacente ritorno a comportamenti virtuosi dopo almeno due secoli di eccessi sconsiderati. Finalmente era chiaro a tutti che, continuando di quel passo, abitare sulla Terra sarebbe diventato sempre più pericoloso e dispendioso, finché non si sarebbe rivelato impossibile. A ogni estate gli insetti si facevano più aggressivi – il conteggio dei decessi per le punture di vespe e calabroni superava ogni record – i ragni avevano smesso di essere timidi e notturni, le cucine erano colonizzate da piccole formiche rugginose e voracissime, l’evaporazione massiccia del Mar Nero e del Mar Mediterraneo in combinazione con l’elevata umidità alimentava piogge catastrofiche sull’Europa centrale, i megaincendi ardevano notte e giorno nei boschi e nelle foreste del Portogallo, quasi l’intera California fu evacuata e stabilmente inghiottita dal fumo denso dei suoi roghi, i mari delle isole greche si trasformarono in smisurati cimiteri di pesci che, portati dalla corrente, scintillavano sotto l’acqua la cui immutata trasparenza accentuava ancora di più la sensazione di incubo, e oltre otto miliardi di bocche da sfamare, peraltro in continuo aumento, dovettero rinunciare ai loro pasti regolari, e molte patire la fame dura, quando un contrattempo imprevisto e sottovalutato – la crisi del fosforo per i fertilizzanti – danneggiò le coltivazioni. Con i primi scoppi di violenza cieca, furono presi quei drastici provvedimenti da tutti preconizzati ma stoltamente rinviati. La testa del mostro fu tagliata alta, alla radice, di netto. Il contraccolpo economico delle nuove leggi fu considerevole e causò prevedibili scontri ma la maggioranza delle persone non sarebbe tornata indietro: finalmente si vedevano le città liberarsi dalla morsa del formidabile pitone e nessuno rimpiangeva gli orridi spacci di dozzinali cibarie congelate e conservate al di sotto delle più scadenti soglie igieniche. La siccità persisteva, il riscaldamento climatico si apprestava ad aggiungere, in un breve lasso di tempo, un secondo grado alle medie registrate, e benché gli animali, le calotte oceaniche, le coste, il suolo e tutti gli altri punti sensibili del pianeta mostrassero i segni delle nostre violenze, eravamo riusciti quantomeno ad arrestare una delle degenerazioni più mostruose della libertà di circolazione e del potere d’acquisto, e, adesso, lungo i grandi fiumi della capitale, le poche macchine elettriche non dovevano insinuarsi tra serpentoni di pullman immobili come massi erratici, che con i loro grandi vetri neri e impenetrabili si susseguivano simili a chilometri di lapidi alla memoria di civiltà inabissate. Il sollievo fu grande, come un malato che, dopo avere provato una nuova medicina prima di addormentarsi, l’indomani si senta nuovamente in forze e in grado di saltare giù dal letto. Un contagioso entusiasmo si trasmise tra le nazioni, alcune delle quali inasprirono i provvedimenti contro il temuto morbo – inasprimenti inutili, perché ormai i turisti, cioè tutti noi, cominciavano a cadere da soli. Furono decimati prima i fragili e i deboli, quindi, dopo un periodo di relativo assestamento e apparente equilibrio, nuovi sommovimenti fecero sì che i forti divenissero fatalmente fragili e deboli, così toccò anche a loro, che morirono più velocemente di tutti. La vegetazione scomparve alla vista di chiunque, e i truffatori diffusero foto e video di paesaggi fittizi, chiedendo somme enormi per permetterne l’accesso. In molti pagarono, pur di credere in un Eden che, in fondo, sapevano inesistente. Quando l’umanità si estinse tutti i climatizzatori erano in funzione ma, poche ore dopo, cessarono d’un tratto. Il silenzio fu da impazzire. Ogni forma d’energia, vecchia e nuova, abbandonò la Terra, che scese in una tenebra bellissima. In una di quelle mezzenotti vergini camminavo per una piazza, e mi sembravano passati pochi giorni da quando l’avevo vista sepolta dalla tabe dell’umanità ipernutrita e aviotrasportata, dove tutto era offuscato alla vista come per un glaucoma. Ora il marmo era caldo, le fontane asciutte, l’aria appiccicosa aveva la densità del sudore del corpo estenuato. Ancora pochi passi e realizzai che, avendo incredibilmente dimenticato la borraccia, dovevo subito tornare a casa. Forzando un passo dietro l’altro mi sembrò a un certo momento di calpestare un terreno sempre più soffice, nuvoloso, e presto cominciarono le vertigini e la nausea. Svenni. Da quel giorno non riuscii più a reggermi sulle gambe. 

Nuovi malesseri si erano affacciati in quei lunghi anni di crisi, e, ora che potevo usare di nuovo la mia libertà di cittadino della Terra, che c’era di nuovo disponibilità di acqua in abbondanza anche per eventuali altri sopravvissuti che avessi incontrato, quelle patologie lente ma inesorabili con un ultimo giro di vite mi costringevano gradualmente in una sedia a rotelle. Stavo andando a cercarla in un vicino ospedale devastato, quando ne vidi una al centro di un pentacolo dorato in una galleria d’arte dietro casa, un modello automatizzato e dal telaio multicolore con effetto marmorizzato. La recuperai, funzionava perfettamente. Dopo che non potei più camminare in nessun modo, e non ci volle molto, mi forzai a uscire di casa ogni giorno, più volte, per non rassegnarmi alla disabilità. Di mattina presto, dopo essermi lavato e, ogni tre giorni, sbarbato, a colazione assumevo due dosi di antinfiammatorio razziato nell’ospedale insieme con vari altri farmaci e, qualunque fosse il tempo – anche nel non raro caso di pioggia – uscivo spingendomi fino ai quartieri più periferici, contemplando il timido ma via via sempre più prepotente risvegliarsi di tutti i comparti della natura, che l’antropizzazione, il turismo di massa e, in generale, la stupefacente e rabbiosa violenza dell’egoismo umano avevano occultato. Ricordavo, mentre planavo sul mio duttile e sgargiante veicolo, le grandi prediche, le tirate, i solenni discorsi quasi tutti svolti da personaggi che avevano predato beni e spazi, materiali o immateriali, concreti o spirituali, inorganici e organici, tecnologici o primordiali, e che vivevano in una costante, fluttuante, rosea, galleggiante prosperità di mezzi, risorse, possibilità. Adesso i maiali per modo di dire erano morti e, in schiumosi acquitrini in mezzo alle strade, nelle piazze, sotto le porte, a ridosso di palazzi – non erano visioni della mia mente spossata -, vendicativi si lavavano i maiali propriamente detti, sguazzavano e si abbeveravano le scrofe e i verri, felici, rotondi, puliti, lustri come coperti da placche di armatura, e anche se non capivo come mai proprio i suini, tra tutte le specie animali, dovessero annunciarsi per primi nei giorni aurorali della nuova fase, reminiscenze orwelliane delle lezioni ginnasiali di letteratura inglese e simpatia per la loro grufolante, serena mediocrità mi colmarono di gioia in quelle lunghe perlustrazioni a bordo del fidato cocchio a sei ruote e tiro a due batterie da dodici volt. Che cosa bella che l’uomo, giunto al culmine della sua spudorata bassezza, si fosse meritato di essere sostituito dai maiali! Altrettanto opportuno era che un giorno (in cui ero un po’ adombrato, perché di mattina, mentre mi stavo vestendo, con uno “snap!” fumettistico, secco, si era spezzato il filo della collana che m’ero fatto con i vetri Domynisti, e per un attimo, guardando i frammenti disperdersi a terra, ero stato riassalito da antiche ubbie superstiziose; avevo dovuto raccoglierli tutti, uno per uno, nonostante le mie difficoltà motorie, ma non avevo avuto la pazienza di rifare la collana così, per il momento, avevo conservato i vetri in un cassetto) m’imbattessi in un gruppo particolarmente nutrito e festoso di quei nuovi pionieri, sorvolato e quasi salutato da un piccolo stormo di gabbiani (ora c’erano di nuovo anche loro! Che tristezza quando questi padroni assoluti della città erano scomparsi dai cieli infuocati) che, come segnali puntuali, lanciavano i loro stridii lancinanti di vitalità. Gli omerici porci facevano il bagno in un pantano poco discosto dalla cosiddetta Casa della Sapienza che, come il suo antico modello abbàside, infine dava segni di cedimento irreversibile.

Io avevo lavorato al Consiglio della Casa della Sapienza, la grande biblioteca e discoteca che avrebbe conservato il fior fiore della civiltà sul punto di tramontare, e io avevo chiesto e, con capziose argomentazioni, ottenuto che vi fossero custoditi solo libri e supporti audio – nastri, vinili, cd; della parte digitale si occupava una valente collega – perché l’arte, avevo appassionatamente perorato, «è un’arma a due punte: lettera e suono». Il resto è decorativo e poteva essere abolito dal sogno del futuro. D’altronde, la Casa della Sapienza era stata eretta anche grazie ai finanziamenti della mia ricchissima famiglia, dunque avevo ben più che voce in capitolo. Oggi ricordo con gusto le mail che ricevetti da scrittori d’ogni sorta – perfino giallisti, i più terrorizzati di tutti dalla fine, nonostante la loro quotidiana speculazione sulla morte altrui – nelle quali, ora con sfacciataggine, più spesso con flautati fervorini, mi pregavano di accogliere nelle severe, metalliche, poderose scaffalature della Casa della Sapienza, nei piani dedicati alla Letteratura della Terra, le loro porcate (chiedo scusa ai miei amici maiali). Fu molto piacevole rispondere a ciascuno di loro – inviai un’infinità di mail, in quegli euforici giorni terminali – che la loro “merda” (usai questo vocabolo, cos’avevo da perdere? Cosa m’importava dell’inimicizia di una spregevole categoria umana che, come le altre appena più degne, sarebbe stata spazzata via molto presto?) non avrebbe mai infetidito la Casa della Sapienza. Eventualmente facessero istanza alla collega dei supporti digitali, benché le nostre idee collimassero sul tema della purificazione, anzi, lei era ancora più intransigente di me! La Casa, se non lo avessero saputo (era divertente umiliare la loro invidiabile ignoranza – conoscevano a malapena i fatti della decade in cui vivevano) aveva avuto una splendida madre al tempo di Harun al-Rashid. Certo, la Casa della Sapienza ora appariva in uno stato pietosamente pericolante, tuttavia la prima impressione, suscitata dalle allarmanti pietraie depositate attorno al perimetro, era esagerata: si levava ancora solida, con la sua struttura approssimativamente piramidale, sulle fondamenta, nonostante il visibile dissesto del suolo e un’ampia fessura apertasi nella faccia a ovest. Nel suo gotico splendore, quel crepaccio era così invitante che lo scelsi come via d’accesso anziché il portone, che, del resto, risultava ormai irreversibilmente ostruito. Fu bello, finalmente, entrare in un luogo pieno di libri dove non ci fossero gialli o casi romanzati di eccidi, neanche uno, né le tante altre categorie di poltiglia decerebrata sovraprodotte da una razza che s’era guadagnata, mediante la manomissione del clima, una gigantesca eutanasia di specie, con un lungo volo silente nel tubolare diritto al suicidio e una picchiata di massa nel proprio certificato di morte. Entrando per la breccia frastagliata in quel tempio di lettere e di suoni, ripulito con la stessa urgenza con cui si era sbarrato il passo all’osceno liquame turistico, non sentii la classica oppressione delle vecchie librerie e delle sale da concerto. Dappertutto circolava aria fresca. Presi la borraccia dalla tasca portaoggetti e mandai giù potenti sorsate. Dopo una vita intera, e con la mia salute compromessa, provai per la prima volta rispetto per me stesso come essere umano. Uscito dall’ascensore in un piano alto, quasi accecato di luce, respirando a pieni polmoni quell’atmosfera rinnovata in ogni molecola, manovrai il mio mezzo, libero e solo, verso la Settima di Sibelius. Attraverso invisibili spiragli fui sorpreso ed emozionato dal cinguettare enfatico degli uccelli canori. Poi, preso il disco, entrato già nel cubicolo d’ascolto con la sua comoda sedia imbottita (per la quale c’erano appigli, ma non avevo ancora deciso se trasferirmi) e le cuffie Sennheiser adagiate su uno dei braccioli, sentii il boato che squarciò ancora di più la via alla luce del giorno.