«Non è più tempo di clemenza. Ormai nel mondo si alza un gran vento di sovversione, un vento freddo, rigoroso, artico, di quei venti mortiferi e così salubri da uccidere i delicati, i malati e gli uccelli, da non consentire loro di passare l’inverno».

Era il 1938 e il vento d’inverno era tale che, presentando sulla «Nouvelle Revue française», il centro della vita intellettuale francese nella prima metà del Novecento, il programma del Collège de Sociologie, una mente fondamentalmente lucida come quella di Roger Caillois poteva lasciarsi andare a un linguaggio che alcuni sentirono in qualche modo fascista o almeno superomista.

Il Collegio, che nella sua breve esistenza, fra il 1937 e il 1939, coinvolse le intelligenze transalpine più vispe del momento – e, segno dei tempi, era pure una specie di società segreta –, era talmente ambizioso e conscio, anche troppo, della sua superiorità intellettuale che nel novembre del 1938, due mesi dopo gli accordi di Monaco (tanto per rimandare alla triste attualità di un momento di umiliazione, vergogna, paura e disagio), pubblicò, sempre sulla «NRF», a firma di Caillois, George Bataille e Michel Leiris, una impegnativa Dichiarazione del Collegio di Sociologia sulla crisi internazionale.

«Lo spettacolo è stato quello di uno smarrimento immobile e muto, di un triste abbandono all’avvenimento, e l’atteggiamento quello puntualmente impaurito e consapevole della propria inferiorità di un popolo che rifiuta di ammettere la guerra tra le possibilità della propria politica di fronte a una nazione che sulla guerra, al contrario, fonda la sua».

Insomma, un brutto spettacolo, malgrado «già la gente alimenti la leggenda di essersi comportata con sangue freddo, con dignità e risoluzione». Il Collegio non giudica i risultati politici, sebbene non possa fare a meno di notare il paradosso di un Reich che difende l’autodeterminazione dei popoli contro le potenze occidentali che vorrebbero difendere l’intangibilità dei confini di Versailles, pur rifiutando di partenza la possibilità di lottare per difenderli. Il giudizio è severo: la crisi ha dimostrato quel che già si sapeva, la «svirilizzazione dell’individuo» borghese e il «rilassamento dei legami della società», in una Francia di «uomini talmente soli, talmente privi di destino che, di fronte alla possibilità della morte, si trovano assolutamente sprovveduti, uomini che non avendo ragioni profonde per lottare, si trovano a essere necessariamente vili di fronte alla lotta, a qualsiasi lotta, mansueti come pecore coscienti e rassegnate al macello». Il destino era già segnato e la storia l’avrebbe confermato con una fretta persino maleducata.

Nel suo romanzo del 1945, Il rinvio, Jean-Paul Sartre racconta praticamente la stessa storia, con in più la splendida scena finale

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