per Johnny Hart

Lunedì notte ho sognato che la cocaina telefonava a mia madre per dirle quanto le mancavo. Si facevano questa lunga chiacchierata, mamma aveva il tono Aurora 2.0 che le mamme usano con una ex fidanzata a cui sono rimaste affezionate – quel parlare roseo e tattile, tra Omero e la pubblicità di un fresco salvaslip. Il fatto che sia morta da un pezzo probabilmente spiega perché nel sogno la vedevo rispondere alle domande della cocaina dentro un Nokia 8810. 

E come sta quel mascalzone, e l’ha trovato poi un lavoro. 

La cocaina chiamava a carico dalla Colombia, quindi una bella stangata per mamma, però ero contento che finalmente si conoscevano.

Martedì notte ho dormito di merda perché sto raffreddato marcio, mi ricordo solo un altro brevissimo sogno di natura telefonica – è da un po’ che le mie fole oniriche girano attorno ai mezzi di comunicazione. 

Comunque ero al bar, alle prese coi rimasugli di un cappuccino, il telefono poggiato accanto alla tazza ha cominciato a vibrare. Sai quelle telefonate insistenti, venti, trenta squilli – che tu pensi aho’ questo è di coccio, non lo capisce che non ho la minima intenzione di rispondere? Ecco, quel tipo di telefonata lì, che riesce a rappresentare tutto tranne un senso di urgenza (in effetti quel tipo di telefonata trasmette più che altro il senso di pazienza, di un pazientissimo rompicoglioni all’altro capo della linea). 

Comunque era la mia coscienza. 

Il barista si avvicina e mi fa: «Ti chiamano, non rispondi?». 

«No, guarda, è la mia coscienza» e gli ho indicato il nome sul display. 

«Embè, non ci parli con la tua coscienza?». 

«Solo quando le telefono io».

Mercoledì ho sognato di rannicchiarmi in un angolo con un buon libro, e dargli fuoco. Ero contento perché per la prima volta in un sogno mi riusciva di usare la parola «crepitio». Poi nel giro di un istante mi proiettavo nella piccola fiammiferaia che spia la cena di Natale nella magione dei ricchi sfondati e intanto muore di freddo, così ho usato l’ultimo fiammifero per dare fuoco alla magione dei ricchi sfondati, e il rogo mi ha scaldato fino alla sera di Santo Stefano, nel frattempo riflettevo sull’insensatezza del martirio. È arrivato Andersen a chiedermi conto dello stravolgimento della sua fiaba, gli ho detto che Ambrose Bierce aveva fatto di peggio. «Guarda che era la notte di capodanno» insisteva.

«Chissene, in Italia c’è il monopolio sui fiammiferi, non accampare pretese».

«L’hanno abolito».

«E quando?».

«Capodanno 2015».

Sono andato a letto presto giovedì, solo per incappare in un altro sogno a matrice sentimentale. Stavolta mi è arrivato un messaggio su LinkedIn dall’epatite B, dice che voleva rivedermi. Eravamo al limite dello stalking. Tu pensa quanto ha setacciato la rete per finire a stanarmi su LinkedIn, che ci vado sì e no una volta l’anno. 

Della nostra relazione ricordavo i dieci chili persi, le transaminasi schizzate da diciannove a diciannovemila e un’improvvisa repulsione per le fritture. Storia lampo, un amore tossico, come si dice adesso. Il senso di spossatezza, quei rigagnoli di pipì arancione. Le ho spiegato che dopo la sieroconversione ribeccarsi era impossibile. E poi, insomma, «te la sei fatta col 30% degli italiani».

«E allora?». 

«Sei cronica, cazzo».

L’epatite B ha detto che non poteva finire così, ed è passata all’azione. Prima mi ha crakkato l’account per ciullarsi il numero di telefono, poi mi ha spedito quel testo in Sindhi che congela l’iphone, ‘sta zoccola. 

Venerdì sogno ricorrente. 1978, studio televisivo Rai, la trasmissione è TV Show. Patty Pravo in tailleur bianco sparato e cravatta, lungo il filo dei pantaloni serpeggia un ossuto apologo sull’anoressia. Diva aureocrinita, lucentezza flou, canta Pensiero stupendo con una sigaretta accesa fra le dita. Come la mina del compasso in una freddissima poesia di John Donne, sogno di essere quella sigaretta che brucia e si consuma. I volteggi delle mani, Patty somiglia terribilmente a mia madre da giovane. Su «prima o poi» mi schizza via. Verso il pubblico? Verso i cameramen? L’acre destino di una paglia.

Sabato notte ero con la mia compagna e ho sognato la mia compagna.  Lei è una specie di personificazione della Lamù di Rumiko Takahashi, ma nel sogno diventava grande e verdeggiante come la Te Fiti di Oceania. Il profilo disteso e insulare. Quel broncio, identico. La guardavo crescere e verdeggiare mentre si trasformava in paesaggio, faceva venire in mente la Géante di Baudelaire, giustamente mi sono saliti alle labbra un paio di versi (gli unici che ricordo): J’eusse aimé vivre auprès d’une jeune géante / comme aux pieds d’une reine un chat voluptueux

Devo aver parlato nel sonno, perché mi è sembrato di sentire un calcio, o un colpo di qualche tipo su una gamba (povera voluttà felina, così umiliata) – ciononostante il sogno andava avanti: lei ormai era stesa e dormiente, leggermente montuosa, umida come il monsone che le carezzava le creste iliache. Mi sono arrampicato su per i suoi crinali, tra gli speroni assolati, lungo le folte verzure alla Courbet fino a una dolce collina, dove ho trovato una tovaglia a quadri e una scatola di Polaretti. 

Così ho improvvisato un pic-nic coi Polaretti. 

Che erano piuttosto affamati, e infatti si sono mangiati quasi tutto loro. Ingollavano club sandwich e palate di insalata di riso, io sbalordito dal fatto che avevano i denti. Non ce l’ho fatta e ho esclamato: «Ma i Polaretti hanno i denti!» e subito uno di loro si mette a ringhiarmi contro: 

«Maledetto, hai scoperto il nostro segreto, adesso dovremo ucciderti». 

«E come?». 

«A morsi, è ovvio».

Scappo a rotta di collo, inseguito dai Polaretti inferociti, ce n’è uno che ha pure i capelli.

Domenica notte ho sognato Giletti.