Tra ginnasio e liceo, quando ho cominciato a partecipare a qualche lettura di poesie, nella mia città la lezione di Giovanni Giudici sembrava sparsa un po’ ovunque, come una spezia usata per insaporire i piatti più diversi. In quella Bologna, e in quella Pianura Padana degli anni Novanta, i versificatori accostavano spesso certi struggimenti sordi o farraginosi, diciamo sereniani, alla sua melodia sorprendente e capziosa, al suo tono autodenigratorio adibito a passepartout – e un montalismo di fondo amalgamava il tutto. Ricordo così, ad esempio, le poesie che recitavano allora nelle osterie o nei teatri Alberto Bertoni e Giancarlo Sissa. E ricordo la mia irritazione, pari almeno all’interesse per la loro koinè. Di Giudici non sopportavo l’autoironia trasformata in una corazza che rende invulnerabili a poco prezzo, o meglio al prezzo – fatale – d’impedire una discesa ai propri inferi nuda e indifesa, autentica, senza alibi. Quell’esibizione di rimorso e di viltà che teneva luogo di assoluzione mi sembrava imperdonabile, specie in una città che dietro le insegne della rivolta o del gioco mi stava rivelando il suo vero volto curiale e bottegaio. Era una truffa: la stessa che vedevo nelle abitudini di alcuni miei coetanei tanto più tracotanti quanto più impeccabili nell’understatement, tanto più conformisti e tribali quanto più rivoluzionari a parole. Entravo nei centri sociali, e m’imbattevo subito in un rigido galateo Verdurin. In quegli stanzoni sordi e grigi non si dava peccato più terribile del sospetto d’ingenuità: ogni gesto, ogni performance dovevano venire incorniciati tra ben visibili virgolette – quasi che le virgolette potessero abolire di per sé il rischio del patetico, o di un kitsch che non essendo criticamente attraversato finiva invece per proiettare la sua ombra gigantesca su una parodia di controcultura.
Quando nell’immagine vulgata di uno scrittore c’è qualcosa di inattendibile, spesso rimettere criticamente le cose a posto non significa affatto stroncarlo, bensì riconoscere che gli si è attribuita un’identità sbagliata
La mia antipatia per Giudici, quindi, si nutriva di altro. Lo assimilavo a un bersaglio polemico insieme più vasto e più angusto – con l’inevitabile ingiustizia del caso, ma anche col parziale vantaggio che regalano a volte le intuizioni analogiche. Pochi anni più tardi il mio rapporto con Alfonso Berardinelli, del quale pure ho condiviso molte analisi sui difetti della letteratura italiana contemporanea, è stato inaugurato proprio da uno scontro sul poeta che aveva trovato in lui uno dei critici più fedeli e simpatetici. A un quarto di secolo dalle mie prime insofferenze, in questa primavera del 2024 in cui si celebrano i cent’anni dalla nascita di Giudici non ho cambiato idea né sentimento. Ho imparato, però,
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