Venerdì 13 novembre 2015 è il giorno in cui a Parigi tre commandos di terroristi islamici hanno attaccato quasi contemporaneamente una sala da concerti, alcuni bistrot dell’XI Arrondissement e lo Stade de France, mietendo più di cento vittime e ferendo più di quattrocento persone. “V13” è il nome con cui è stato battezzato il processo che si è celebrato tra il settembre del 2021 e il maggio del 2022, e che lo scrittore Emmanuel Carrère ha seguito giorno per giorno insieme ad altri giornalisti. La sua presenza si è tradotta in una serie di articoli pubblicati sull’«Obs» e infine trasformati nel libro che Adelphi ha da poco pubblicato in Italia nella traduzione di Francesco Bergamasco.

Carrère, che già avevamo visto affascinato dal diritto nella seconda parte di Vite che non sono la mia, ricostruisce il lungo processo nelle sue varie tappe, dalle deposizioni delle parti civili (moltissime, durissime) alle arringhe della difesa. La struttura del processo è paragonata dallo stesso Carrère a quella di un romanzo, con l’obiettivo che si muove da una parte all’altra partendo da lontano e poi entrando nel dettaglio, lunghe digressioni di carattere informativo che vedono protagonisti esperti e periti, testimonianze di vittime e parenti, difficili scambi tra il pubblico ministero e gli imputati, e così via fino ad arrivare alla sentenza. 

A proposito degli imputati: di questi ultimi, una decina circa, nessuno era direttamente responsabile della carneficina. Tutti hanno partecipato in qualche modo ai fatti ma da posizioni defilate, come autisti, fornitori di documenti falsificati, ospiti dei terroristi ecc. I giudici hanno avuto lo scopo di verificarne la consapevolezza, o il livello di consapevolezza, rispetto al piano che hanno contribuito a realizzare. Solo uno, Salah Abdeslam, era con gli attentatori sul luogo del delitto, indossava una cintura esplosiva ma all’ultimo momento ha rinunciato. Di fatto è l’unico sopravvissuto dei tre gruppi. I veri killer, però, sono tutti morti.

Carrère sembra saggiamente mettersi da parte, dispensandoci dalla sua invadente prima persona e lasciando parlare soprattutto le vittime e i loro parenti e amici

Quest’ultimo punto è importante. Non ci sono scoperte o colpi di scena nel corso del processo. La sua funzione principale, ci dice Carrère, è quella di comporre un racconto collettivo, una condivisione pacificata del trauma. Il grande edificio bianco che è stato appositamente costruito sull’Île de la Cité, a Parigi, per ospitare i numerosissimi partecipanti al processo è il luogo in cui la sofferenza individuale può e deve diventare parte della storia collettiva, assorbito nel corpo della società, come durante una messa o una lunghissima seduta psicoanalitica di gruppo (entrambe metafore di Carrère). 

Forse perché il dispositivo dell’autofiction negli ultimi suoi lavori sembrava mostrare la corda, lasciando emergere un narcisismo sempre meno giustificato dal risultato artistico, o forse perché il cuore del processo risiede proprio nella sussunzione del dolore privato alla dimensione collettiva e condivisa, in questo libro Carrère sembra saggiamente mettersi da parte, dispensandoci dalla sua invadente prima persona e lasciando parlare soprattutto le vittime e i loro parenti e amici.

Questo contenuto è visibile ai soli iscritti

Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo.

Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.