Nel 1799, l’onda lunga della Rivoluzione francese scandita dai valori di libertà, uguaglianza e fratellanza contamina anche Napoli. Spesso, quando si racconta, si parla e si scrive di questa metropoli sembra che si tratti di una storia a parte, segnata da peculiarità così forti da racchiuderla quasi in uno splendido e sventurato isolamento. Una storia a sé. Eppure, questa storia è talmente intrecciata alla storia europea da renderla incomprensibile al di fuori di essa. Lo conferma proprio il fermento rivoluzionario che avvolge la città all’inizio del 1799. Sospesa tra influenza francese e clericale la popolazione napoletana, nelle sue diverse componenti, svolge una parte attiva nelle decisioni che la riguardano. L’arrivo dei francesi fu promosso e sostenuto, o aspramente combattuto: da qualunque parte si stesse, era comunque la prima volta che ciò avveniva. Era anche la prima volta che la lotta si svolgeva non per sostenere una potenza contro un’altra in nome di fedeltà dinastiche o di interessi nobiliari, ma intorno a un programma politico: sostenere il trono e l’altare, cioè un regime monarchico dispotico e clericale, oppure abbatterli e instaurare una repubblica democratica. Anche Napoli, come la Francia, scopriva la politica, la rivoluzione.
È su questo sfondo politico e rivoluzionario che si dipanano le pagine de Il resto di niente, romanzo scritto da Enzo Striano, pubblicato per la prima volta nel 1986, che racconta la vita di Eleonora de Fonseca Pimentel. La donna, nobile portoghese, giunta adolescente a Napoli partecipa attivamente ai moti rivoluzionari e viene impiccata ma non decapitata, come voleva un privilegio nobiliare dell’epoca. La sconfitta dei rivoluzionari viene seguita dalla restaurazione del potere borbonico e dalle condanne a morte per i sostenitori della Repubblica. Tra di loro vi è anche Eleonora, giustiziata in piazza Mercato il 20 agosto del 1799. All’impiccata non resta in pugno meno che niente: il “resto”, è il conseguimento di «una dimensione più vera del reale…», racconta Enzo Striano.

È con questa premessa storico-politica che si connette la mostra in corso al Madre di Napoli. Nata da un’idea del direttore artistico di Gucci, Sabato De Sarno, e curata dalla direttrice del Museo, Eva Fabbris, in collaborazione con Giovanna Manzotti. Si tratta di uno sperimentale intreccio di proiezioni su ambiti disciplinari interconnessi come l’architettura, le arti visive e soprattutto la politica e l’urbanistica. Un disegno della cultura napoletana a partire da luoghi, spazi, architetture iconiche disegnate e proposte da Aldo Loris Rossi. Come il complesso residenziale di Piazza Grande, progettato nel 1979 dall’architetto irpino di nascita ma profondamente e visionariamente napoletano, e luogo di ambientazione della quinta stagione della serie televisiva Gomorra. O come il brutalismo della Casa del Portuale, il progetto commissionato a Aldo Loris Rossi nel 1968 dalla Compagnia Unica dei Lavoratori Portuali, destinato a ospitare la sede dei loro uffici, a Calata della Marinella, nella zona est del porto di Napoli. Un’architettura visionaria di matrice futurista in cui le forme dinamiche nello spazio di Boccioni diventano una spirale avvolgente di funzioni in stretto dialogo con la città, e soprattutto con un altro capolavoro modernista: il Mercato Ittico di Luigi Cosenza (spazio caro alla gallerista Lia Rumma, la quale lo aveva indicato come luogo del contemporaneo per un futuro museo che poi ha trovato sede nel Palazzo di via Settembrini restaurato da Alvaro Siza; intrecci, connessioni che sembrano esaltarsi e sovrapporsi ne Il resto di niente).
Emerge anche un racconto corale di Napoli attraverso uno stretto dialogo tra Loris Rossi e altri progettisti o artisti. Sono soprattutto i lavori del fotografo tedesco Tobias Zielony a creare un’empatia con l’anima profonda della città partenopea, attraverso uno sguardo complice e curioso, mai giudicante. Ma anche le opere di Vincenzo Agnetti e Nanda Vigo, artisti di una generazione vicina al periodo dell’architettura organicista e utopica, generano interessanti paralleli e rimandi. Franco Mazzucchelli concepisce infine le sue sculture gonfiabili come dispositivi di occupazione dello spazio vissuto e condiviso, occupando le sale del Madre per dare vita alla rievocazione di un’epoca di utopie radicali che tanto hanno contribuito alla ricerca visiva e architettonica italiana contemporanea.
