Un dialogo-tipo, che ho sentito più volte dal vivo fin da La stanza del figlio (correva l’anno 2001): «Che ne pensi dell’ultimo film di Nanni Moretti?», «Carino, ma sai, io sono un fan del primo Moretti: il secondo Moretti non ha fatto altro che ripetersi». Dividere l’opera di un artista in età dell’Oro e del Bronzo è il modo in cui lo spettatore nostalgico sfoga indirettamente quanto gli pesi non essere rimasto fedele nel tempo a un’idea granitica di sé. La formula non cambia a seconda degli ambiti artistici, è universale nel suo snobismo: si può parlare senza forzature, in maniera equivalente, di un primo Pollini, un primo Jovanotti, una prima Greta Menchi. Premessa dunque la natura spesso e volentieri disonesta e proiettiva della separazione fra “primo” e “secondo”, suggerisco che questa illusione dice il vero sull’opera narrativa di Paolo Volponi (1924-1994), del quale quest’anno ricorrono due anniversari cruciali. Eppure, l’anniversario della morte (caduto il 23 agosto scorso) appare più remoto nel tempo di quanto la distanza temporale effettiva suggerirebbe: quasi Volponi fosse fuoriuscito ben prima di trent’anni fa da un modo vitale di scrivere e pensare la realtà circostante. In poche parole, viene da chiedersi:perché, dopo due romanzi straordinari negli anni Sessanta, Volponi non ha più scritto niente di altrettanto bello o memorabile?

Nei suoi primi due libri (Memoriale, 1962; La macchina mondiale, 1965), radicati nell’immediato dopoguerra, Volponi fa sua l’ottica straniata di proletari e contadini,

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