Un giorno di sole di moltissimi anni fa salii su un treno e lasciai la provinciucola di mare per andare in città, dove, in una libreria tanto bella quanto piccola, c’era Abraham Yehoshua che presentava un suo libro. Eravamo in tanti e trovai posto inerpicandomi in cima a una sorta di balaustra, scala o mezzanino chell’era. Da lassù si vedeva la sala, si sentiva benissimo e, si sa, il loggione è uno degli anelli del mio dna. Mentre aspettavo che il mio molto amato scrittore prendesse la parola scorsi là in basso un tavolino ricolmo dei colorati libri della Giuntina. 

Era un tempo prima di internet, prima di Amazon, prima di Goodreads, quando ancora i libri ce li si consigliava tra amici e si leggevano le recensioni sulle riviste, sugli inserti domenicali dei giornali e io, infatti, davanti a quell’abbondanza di Giuntinerie feci un salto di gioia. Contenuto, perché da lassù rischiavo il tuffo sulle seggiolette, ma gioioso. 

E poi, sarà stata la giovinezza, l’entusiasmo letterario, o chissà quale Baal Scemino Tov che mi scalpitava dentro, tant’è che mi alzai e col gesto del tifoso esclamai: «La Giuntina! Urrà!! Ma che meraviglia! Meno male che c’è la Giuntina! Ora scendo e me li compro tutti!».

La scenetta piacque al signore distinto e molto alto alla mia sinistra, che mi chiese: «Ah, conosce la Giuntina?». Ma-come-conosco-la-Giuntina? Maocchevvòle-questo? Reagii io, bizzosa, sempre per la giovinesca esuberanza. E poi sì, certo, che erano libri fantastici, che io me li magnavo a piene mani tipo emenèms, tanto erano tutti comunque bellissimi, e che traducevano i polacchi! e poi insomma, al mio paesello di mare non li trovavo, e sì che li ordinavo, avevo il cataloghino anche, ma poi a vederli tutti lì era una cosa stupenda e me li potevo scegliere, sfogliare, annusare, oddio, me li sarei portati via tutti. 

Il signore curioso assunse all’istante la posa del gatto pasciuto, sorrise lisciandosi i baffi e concluse la pur breve conversazione con un «Mi fa molto piacere, sono Daniel Vogelmann, la Giuntina sono io». E proprio allora, e per fortuna, Yehoshua cominciò a parlare.

Dopo un quasi secolo e con entusiasmo letterario ormai più senile che liceale – comunque sia –, davanti alla traduzione dallo yiddish di Willy, dell’amato Israelone Giovannone Singer (che se uno lo trascrive dall’inglese invece di usare la traslitterazione dello YIVO,  allora tanto vale una versione italico appenninica, magari con suffisso accrescitivo, perché dei fratelli lui era il più grande) mi son trovata a esclamare più o meno la stessa cosa: «Meno male che c’è la Giuntina!».

Ora io Singer lo leggo sempre perché sempre mi piace, e proprio mi piace come Sean Connery giovane e in costume, poi ch’io legga romanzi, racconti o resoconti di viaggio è uguale, le storie che lui crea sono sempre un’esperienza che mi lascia rimbambita, un po’ scema, con lo sguardo inebetito che mi dà la grande letteratura, che non ho nulla da dire, non so nemmeno bene dove sono, gongolo come un lattante dopo la poppata e se proprio devo aprire bocca racconto quello che ho letto, pure se mi si chiede di fare qualcos’altro, nulla, io racconto la storia di Singer. 

© Carl Van Vechten Collection / Getty Images

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