Corto, pelato, con le grasse labbra incorniciate da baffi malinconici, le mani da bambino e le guance più rosa della mortadella, il Professor Gaudenzio Caviglia parcheggia il motorino a bordo strada, di fronte alla pineta. Il guardrail cui si aggrappa per aiutarsi a tirare il motorino sul cavalletto è tiepido, forse per via del sole, caldo come quello primaverile nonostante il calendario parli di gennaio, o magari perché fino a pochi istanti prima, sopra questa stessa porzione di guardrail, c’era seduto il tizio che adesso lo fissa, restando impalato come un cartello segnaletico in mezzo ai pini marittimi: un cinquantenne basso e peloso con il casco in mano e uno zainetto da adolescente in spalla. Se lo sguardo bovino del cinquantenne peloso avesse il potere di cristallizzarsi come fanno i minerali, con tutta probabilità finirebbe per assomigliare a una freccia, a un’indicazione color d’ametista puntata prima verso Gaudenzio, e subito dopo, di rimbalzo, verso la parte più interna della pineta, quella che in modo piuttosto brusco declina verso la ferrovia e poi ancora oltre, sino alla costa, alla spiaggia che la mattina, complice un’ombra sfumata, risplende di un colore a metà tra il rosa pallido e l’ocra più tenue, come cipria diluita nella pioggia o nelle lacrime. 

Il Professor Gaudenzio chiama questo posto “la pineta degli uomini tarchiati”. È un punto d’incontro alquanto famoso per chi ha voglia di concedersi del sesso occasionale. A pochi chilometri dal confine con la Francia, è frequentato da italiani e francesi in egual misura. Un’Europa unita fatta di soli uomini però, quasi tutti tozzi e corpulenti, piuttosto in là con gli anni. Di solito, iniziano la loro routine restando in attesa nell’unica parte pianeggiante della pineta, come per acclimatarsi a questo forte odore di resina e feci e kleenex abbrustoliti, per poi franare dolcemente verso il basso, in coppia o da soli, a disposizione di un amore da vivere o da osservare.  

 Gaudenzio non viene qui per il sesso, non viene qui per la pineta degli uomini tarchiati. Anzi, il Professore la pineta la evita proprio. Come ogni giorno quando il clima lo permette, dopo aver parcheggiato il motorino ed essersi messo in spalla il borsone, Gaudenzio procede in senso opposto, quasi volesse rientrare nella galleria da cui è appena sbucato, ma poi all’ultimo devia verso l’alto, si arrampica sopra un sentiero sterrato che fugge dall’Aurelia e da cui si può osservare la spiaggia: il mare color smeraldo, gonfio di luce e ombre, somiglia alla pancia di un serpente enorme e sazio. Il sentiero passa attraverso i muri a secco che delimitano i Giardini Hanbury. Alla fine del 1800 i fratelli Thomas e Daniel Hanbury comprarono questo pezzo di collina che sovrasta Capo Mortola, e fecero arrivare piante da ogni parte del mondo, dalle Americhe, dal Sudafrica e dall’Australia.

Da allora i giardini sono cambiati radicalmente, trasformati tanto dall’opera di agronomi e architetti del paesaggio, quanto dalle guerre e dall’abbandono, per poi essere infine rilevati dall’Università di Genova e convertiti in un giardino botanico aperto ai visitatori. L’antica strada romana percorsa da Gaudenzio Caviglia è forse l’unico tratto a non aver subito grandi modifiche, le stesse pietre irregolari e la stessa terra su cui transitarono camminatori illustri come Napoleone, Papa Innocenzo IV e Machiavelli. Tutto attorno, a seconda della stagione, risplendono  i glicini, le rose, i gerani, la Barba di Giove, le aloe, le salvie, i narcisi e le brugmansia, con i suoi fiori simili a splendide campane un poco liquefatte. 

Il Professor Gaudenzio Caviglia segue il percorso imposto dalla bellezza delle piante e dai muri del giardino, camminando a passo spedito e senza indossare le mutande. Perché se è vero che non viene in questi luoghi alla ricerca di sesso occasionale con uomini tarchiati, è altrettanto innegabile che anche lui, come gli amanti della pineta, una volta raggiunta la propria porzione di spiaggia preferita, per prima cosa si spogli nudo. Uno dei pochi vantaggi offerti dalla bruttezza, la bruttezza piena, quella capace di tradire sin dall’adolescenza tutti i comandamenti estetici imperanti, è data dalla tolleranza con cui si concede al proprio corpo di invecchiare. Gaudenzio nudo, a settanta e qualcosa anni, non si affligge per il decadimento, riscontra piuttosto una coerenza feroce. L’abitudine a non piacersi, protratta nel tempo al punto da dimenticarsi l’alternativa, è un balsamo dolce che anestetizza il passaggio del tempo. E poi, la nudità del Professor Gaudenzio Caviglia dura un attimo appena, perché subito il borsone si apre e la muta da immersioni si spalanca e lo ingoia. A fatica, naturalmente, perché Gaudenzio è largo e abbondante e la muta stretta ed esigente: il momento che precede la nuotata invernale è faticoso, faticoso e imbarazzante in quanto costringe Gaudenzio a barcollare, ma al tempo stesso lo rende orgoglioso, poiché gli offre l’impressione di trasformarsi in un insaccato, dando finalmente un senso al rosa mortadella delle sue guance. E per di più Gaudenzio è convinto di trasformarsi in un insaccato raro e speciale, un insaccato dal carattere dominante, capace di scegliere con la propria testa quando è il momento di farsi ospitare dal budello incaricato di contenerlo e preservarlo. 

Dopo aver infilato anche il cappuccio, Gaudenzio si volta e la vede. La ragazza con la cuffia. Come sempre, in aggiunta alla cuffia, indossa soltanto un paio di slip color pesca, e la visione dei seni, piccoli, leggermente appuntiti, traccia un taglio invisibile ma profondo lungo la colonna vertebrale di Gaudenzio, costringendolo a deglutire pur di immaginarne il sapore. Da quando è comparsa per la prima volta, un paio di settimane addietro, l’unico dettaglio che cambia di giorno in giorno è dato dal colore della cuffia. Oggi è di un arancione che sembra schernire il rosa pallido della spiaggia sotto la pineta, che si trova giusto a pochi metri, oltre gli scogli di Capo Mortola.

Le lunghe enormi pietre ruvide di Capo Mortola si aggrovigliano sino a formare una lingua stretta e lunga, che incapace di accontentarsi della costa si inabissa tra le acque, ma senza scomparire del tutto, inabissandosi e riemergendo a intervalli irregolari, di modo che le correnti, scontrandosi tra loro, siano capaci di creare colori e schiume inaspettate, grazie alla variazione di temperatura e potenza. Più avanti, a largo, in una fossa, vivono i famosi gamberi di Sanremo, molto più cari di qualsiasi cocaina. Ma la ragazza con la cuffia si accontenta dell’ultima porzione di roccia, la più lontana dalla costa. È in piedi, contesa dalle correnti opposte ma stabile, simile ai ciuffi d’alga attaccati agli scogli vicino alla superficie se non fosse per il pallore della carne, contrastato lievemente dai nei, come piccole e delicate increspature dello sguardo. 

Ha il viso rivolto verso Gaudenzio, che resta immobile, con l’acqua che gli arriva a metà della coscia, insaccato non più dominante ma in attesa di un gesto; un gesto invisibile.

I primi giorni in cui apparve la ragazza con la cuffia, il Professor Gaudenzio Caviglia ostentava un assoluto disinteresse nei suoi confronti. Non voleva essere scambiato per uno degli uomini tarchiati della pineta, sempre pronti a masturbarsi acquattati tra le rocce come grassi gechi pelosi. Ci teneva a dimostrare alla ragazza con la cuffia di essere consapevole dell’abissale differenza di età tra loro, e di non essere uno sprovveduto o un illuso: nemmeno con cinquant’anni di meno addosso Gaudenzio avrebbe mai e poi mai approcciato una creatura tanto bella. Per questo si limitava a osservarla fingendo di trasportare lo sguardo altrove, quasi che il corpo e il volto della giovane ragazza altro non fossero se non la fermata intermedia di un percorso su rotaia, obbligato dalla rotaia stessa a transitarle nelle vicinanze. La cosa strana, Gaudenzio se ne accorse sin dal primo giorno, era data dall’intensità e dall’interesse con cui la ragazza sembrava reagire ai brevi, brevissimi istanti in cui i loro sguardi si incrociavano. “Sembra delusa,” si diceva subito dopo Gaudenzio nuotando tra i dorsi dorati delle salpe “quando finisco per guardare altrove mi pare delusa, come se ci tenesse, al mio interesse”.

I giorni successivi servirono a confermare questa teoria. La ragazza con la cuffia ci tiene davvero a incrociare lo sguardo di Gaudenzio, vuole che lui la fissi, esige di essere seguita come una direttrice d’orchestra, e lui, Gaudenzio, il Professor Gaudenzio Caviglia, non aspettava altro che di essere diretto da un creatura simile. Pur non avendo mai osato sperare in un rimborso per tutta la solitudine patita, – perché speranze di questo tipo sono soltanto barzellette travestite da preghiere – è deliziato dall’idea di riceverlo: quando gli altri vivevano estasiati o straziati, con il battito cardiaco accelerato, oppure ospiti di quel tempo ampio e rarefatto che segue all’amore, o ancora volteggianti come acrobati o feriti e feroci come prede braccate, a lui è sempre spettato il ruolo di zavorra, materiale inerte che serve a non far volare via il tendone da circo dentro cui gli altri svolgevano le loro pratiche, i loro entusiasmi, le loro delusioni. A Gaudenzio Caviglia è sempre mancato il coraggio per essere infelice, genuinamente infelice, ha preferito imparare l’arte dell’uncinetto: ogni ora avvolta con calma e precisione attorno all’ora seguente, sino a realizzare il tessuto dei giorni, opaco, tutto sommato vivibile, insapore. Sragionando, aveva finito per farsene una ragione. Sino a quando la ragazza con la cuffia è apparsa nella sua vita offrendogli il gesto invisibile di cui aveva bisogno: una voce. Anche una voce può essere un gesto, se si tratta di una voce che non ha bisogno di corde vocali e lingua e labbra, e tanto meno della vicinanza di chi è chiamato ad ascoltare. La voce della ragazza con la cuffia giunge direttamente nella testa del Professor Gaudenzio Caviglia scavalcando l’udito, chiara, musicale, un poco aspra, dotata di un accento impossibile da riconoscere e dunque perfetto. Anche la lingua, l’idioma con cui si rivolge a Gaudenzio è misterioso, per non dire incomprensibile. Sono vocali che terminano in un fischio, battiti di lingua contro il palato capaci di assomigliare a un canto, e al tempo stesso di imitare il rumore dei sassi smossi dalla corrente, le consonanti si gonfiano e quindi deragliano, soltanto per darsi nuova spinta e salire ancora più in alto, nei paraggi del rumore bianco, e poi sprofondare nuovamente, come tentacoli in fuga dalla bufera.

E Gaudenzio nuota. Si immerge come mai prima, guidato dalla voce della ragazza con la cuffia che rimane immobile sull’ultimo scoglio, e lo consiglia, lo incoraggia. È tutta per lui. Come tutto per lui è il manto di posidonie che domina il fondale, illuminato da un mosaico argentato e fluido, quello disegnato dal riflesso del dorso delle sardine che, nutrendosi, sembrano diventare un coro di supporto per la voce della ragazza, la sua voce che cresce come cresce il mare, e che allo stesso modo accetta di essere composta da colori contrastanti, verde acqua e grigio piccione, viola fiore di salvia  e blu cobalto, bianco accecante e azzurro turchese. E più la voce della ragazza cresce, più il corpo di Gaudenzio si libera di ogni costrizione, si emancipa dal fiato e dalla forza di gravità, dalle infinite ore sprecate nell’abitudine alla calma apparente. Ogni organo, ogni muscolo, ogni singolo grammo di Gaudenzio si ribella alla propria storia, alla propria tradizione partecipando alla grandiosa coreografia del mare, che non contiene, ma si lascia guidare, da sempre e per sempre, da una voce ancora più suadente di quella della ragazza con la cuffia. 

Naturalmente, il giorno in cui il corpo di Gaudenzio verrà ritrovato senza vita sugli scogli, perché l’emancipazione dal fiato e dalla forza di gravità suscita vendette terribili e mortali, i pochi che se ne interesseranno, parleranno di una tragedia. E così facendo sbaglieranno. Perché essendo la vita un inevitabile naufragio, sciagurati non sono coloro che ascoltano il canto della sirena, ma gli altri, la maggioranza, che non lo ascolteranno mai.