Come chiunque attraversò la strada, non badando al traffico, e arrivò sull’altro marciapiede senz’essere travolto, come dissero i testimoni, solo per pura fortuna, o per la prontezza di riflessi degli automobilisti, come gli automobilisti stessi sostennero: nessuno frenò – sarebbe stato un disastro –, tutti scansarono, tutti suonarono il clacson, tutti – per un istinto ben comprensibile – augurarono mille morti atroci al poveretto, nel momento in cui per salvargli la vita mettevano, come alcuni fecero notare, a rischio la propria. Quanto a lui, approdato al marciapiede, dall’altra parte del viale, iniziò a camminare svelto, come uno che ha un’urgenza, e guardando basso, come uno che ha un pensiero, nel mentre che il traffico accanto a lui, dopo l’improvviso sbalordimento, riprendeva a fluire, non senza che qualche automobilista, più stupito che irritato da tanta estraneità, a finestrino abbassato gli gridasse parole, come si usa dire, irriferibili, e che pertanto non riferiremo. Nessun danno fu rilevato, nessun tocco tra veicoli, nessun fanalino andò in pezzi, nessuna carrozzeria fu urtata o strisciata: alla fin fine, come qualcuno concluse, l’evento potenzialmente tragico – l’uomo avrebbe potuto morire, o essere ferito gravemente; l’eventuale frenata improvvisa di una o più automobili avrebbe potuto provocare un tamponamento multiplo, un accumulo di ferramenta, un frantumarsi di lunotti e parabrezza, una serie di ammaccamenti e ferimenti e colpi di frusta, per tacer delle schegge di lamiera, o degli scoppi di pneumatici – si risolse in un bel nulla, non lasciando traccia se non, come ci si rese conto nei giorni successivi, in un montare di narrazioni, in casa durante la cena, al bar, sul lavoro, nelle quali l’incidente – in realtà il mancato incidente, per l’appunto – ingigantì fino ad apparire non come uno sbandamento durato pochi secondi, e senza conseguenze per nessuno, e prontamente assorbito nel fluire ininterrotto del traffico, bensì come un aggrovigliamento durato infiniti minuti, un intasarsi irrisolvibile della circolazione, un evento epocale.

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Sparì, l’uomo, dalla vista di tutti coloro ai quali aveva fatto esplodere l’adrenalina, dopo pochi passi, infilandosi in una viuzza pedonale, quasi un budello tra due palazzi, «Ha presente», raccontò il barista, che al momento del fatto stava servendo un’orzata e un caffè nero a due croati, seduti a uno dei tavolini sul marciapiede, «quando uno scarafaggio, appena lei accende la luce, dopo un istante d’immobilità corre, più veloce di qualunque piede alzatosi a schiacciarlo, a rifugiarsi in una fessura invisibile, una fessura che nessuno aveva mai sospettato esistesse, sparendo, e non riapparendo più per quanto gli si faccia la posta, probabilmente percorrendo a nostra insaputa, tra intonaci e crepe, tra malte e cementi, le vie di una città sconosciuta agli umani? Ha presente?», abbiamo presente, rispondemmo, mentre ci indicava, il barista, con foga, come se il fatto fosse appena avvenuto, come se affrettandoci avessimo potuto inseguire l’uomo, acciuffarlo, riportarlo sul marciapiede del viale, esibirlo agli occhi di tutti, sottoporlo al giudizio della folla – ma il fatto era avvenuto il martedì precedente, e dell’uomo, a sentire tutti, non s’era trovata più traccia, non che nessuno lo avesse cercato, ma insomma tutti lo avevano visto, tutti avrebbero potuto riconoscerlo, con quella barbetta mezza grigia e mezza rossa, quel cappotto nero,  le mani in tasca, quel berretto grigio, quell’andatura cifotica, e il passo tuttavia spedito, «Sembrava distratto», cercò di spiegare la signora della lavanderia, che attraverso la vetrata aveva visto tutto, ed era subito accorsa fuori, prevendendo contusi o addirittura feriti, e avendo lei un passato da infermiera, prima che, dopo la morte dei genitori, entrambi portati via dal covid, e dopo appunto l’esperienza, da infermiera, del covid, «Giorni e giorni e giorni sempre bardati, tute e mascherine, turni di dodici ore, di quattordici, una volta ventisei ore filate facemmo, eravamo distrutti, e non potevamo fare nulla, i primi mesi, dieci persone per stanza, lavoravamo come automi, Dio Signore, chissà quanti sono morti perché non sapevamo cosa fare, non respiravano, li intubavamo, morivano, e avevamo tanta paura, poi dovevamo tornare a casa, e chi aveva un marito, una moglie, dei figli, un genitore anziano, come si faceva, che mio padre era morto l’ho saputo sei giorni dopo, a mia madre riuscii a stringere la mano, a stringerle la mano mentre moriva, mi ammalai così, per avere stretto la mano a mia madre che moriva, quanta paura, ma per me fu solo un febbrone, male a tutti i muscoli, ma la polmonite no, e così quando guarii mi ributtarono dentro, ero immunizzata, eravamo come i monatti, sa i monatti del Manzoni?, camminavamo tra i letti come dei sopravvissuti, eravamo dei sopravvissuti, e allora, quand’è finita, quando si è calmata ho detto basta, e mi sono licenziata, e appena si è potuto ho riaperto la lavanderia dei miei, c’era ancora un sacco di roba dentro, un sacco di roba di gente che nel frattempo era morta, ho tenuto tutto per un anno e poi basta, ho dato tutto alla Caritas, tutta roba buona, per me non ho tenuto niente, e insomma, cosa dovevo fare?», e dal marciapiede aveva visto l’uomo andarsene, lo aveva visto di spalle, quasi gobbo, le mani ficcate nelle tasche del cappottone, come se non si fosse accorto di niente, «non so se era distratto», continuò parzialmente ripetendosi, «o se era troppo concentrato, forse aveva chissà quale pensiero nella testa, forse aveva la testa vuota, forse era la stessa cosa, io mi ricordo quando uscivo dall’ospedale, le strade deserte, camminavo senza sapere che camminavo, andavo di corsa, fuori in strada non avevo la tuta, avevo la mascherina, mi sentivo nuda, esposta, ancora più in pericolo che in reparto, una volta, una volta un motociclista mi sfiorò, non lo avevo sentito arrivare, non lo avevo visto, mi gridò addosso, le solite cose, guarda dove vai, cretina, ma io non guardavo, volevo solo arrivare a casa, chiudermi dentro, per fortuna che ero sola, farmi una doccia due docce tre docce, farmi una pasta in bianco, buttarmi a letto, dormire».

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Ne parlò l’inserto locale del «Corriere», di quell’incidente, del non avvenuto incidente, a causa di un reel di Instagram, qualcuno aveva ripreso tutto, da un terrazzino o da una finestra, c’è sempre qualcuno che riprende tutto da un terrazzino o da una finestra, c’è sempre un telefono che ci guarda, e nel reel si vedeva distintamente, per quanto la mano fosse malferma, l’uomo attraversare la strada, così, senza nessuna attenzione, come fosse stata una strada deserta, con le automobili che si buttavano di qua e di là, nel viale trafficato, per non ammazzarlo, e lui niente, come se niente gli succedesse intorno, come se il mondo fosse vuoto, o tutto per lui, come se niente gli importasse di ciò che sarebbe potuto accadere, di ciò che accadeva attorno a lui, o peggio, come se sperasse di essere travolto, ma no: c’erano infinite discussioni in rete, riferiva l’inserto del «Corriere», se fosse stato un tentativo di suicidio, evidentemente fallito, se l’uomo fosse un pazzo, o uno svanito, o semplicemente ubriaco – ma da come camminava, no, non sembrava ubriaco né drogato –, della cosa si parlò per giorni, fino a quando non se ne parlò più, non essendoci in effetti niente da dire, solo quel reel da guardare e riguardare, senza capire. Poco più di un mese dopo un uomo con la barba fu trovato su una panchina, all’alba, da un vigile, morto di stenti e di freddo, avvolto in un capotto nero, senza berretto però, qualcuno pensò a lui: il figlio dichiarò, rintracciato dalla polizia, perché l’uomo aveva i documenti, «Non lo sentivo da anni, non ci siamo mai capiti, tantomeno amati, mi dispiace per lui, mi dispiace, senz’altro, ma come mi dispiacerebbe per chiunque».

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