Allora finalmente Lorenzo ha capito di non avere talento. In quel momento preciso, la strada gli si è aperta davanti, ha trovato pace una volta per tutte.

Nell’età dolceamara dei «nuovi trenta», inizia tre romanzi in contemporanea, un giallo, un romanzo di fantascienza e uno senza una trama, in cui i personaggi, contraddistinti dai loro nomi puntati, lampeggiano per poche righe con azioni ricattatorie e irrevocabili, e vengono ringhiottiti dal fango fitto dei soliloqui. Va avanti per quattro mesi, dimenticandosi del resto. Ma al terzo capitolo di ciascun romanzo, con regolarità schiacciante, ha uno strappo nella pancia: scopre che sta solo scrivendo tre libri di merda.

Al terzo anno di università, non si rende ancora conto di aver sbagliato indirizzo, ma possiamo giustificarlo: da quattro mesi lui e A., finite le lezioni, dormono assieme. È la prima donna che lo accoglie tolte due rumene in pineta nell’estate fra quarto e quinto anno di liceo. Lui lo vede come un miracolo che non merita – elemento che, non ha le forze di capirlo, la allontana in modo impercettibile da lui, anche se può darsi contribuiscano le rumene che si è scordato di averle menzionato, una volta, da sbronzo. E poi A., indipendente com’è, a casa a Ravenna ha un “moroso” (parola che a lui suona insultante), M., con cui sta dalle scuole medie, che non è giusto lasciare. Lorenzo è sorpreso: simula un’invidia biliosa davanti ad A., ma di nascosto ammira M. A quanto pare M. è cresciuto con un padre violento, ma è stato portato via dalla madre quando era piccolo, prima che quello degenerasse, pochi anni dopo quell’uomo è morto, e adesso pure la madre è stata portata via da una malattia “importante” (così A.), lasciando M. da solo. E se la cava pure bene, visto che studia in un’università parecchio “importante” (A. riusa la parola senza farci caso), la più prestigiosa del Paese, e con risultati di gran lunga migliori di quasi tutti quelli che conosce, incluso Lorenzo, che si stupisce di scoprirsi a desiderare tutto il male di M.: i suoi genitori stanno assieme, li ha sempre odiati e per giunta loro non lo hanno mai maltrattato, se toccasse a lui tutto quello sarebbe più giusto, darebbe senso. Al posto di M. avrebbe i contenuti per scrivere (invece che, si illude, solo il talento per farlo, come un fuoco senza legna). E poi tutto quel dolore su di sé contribuirebbe a far restare A. a dormire, invece di andarsene ogni volta prima di colazione a prendere il treno per Ravenna.

Sono in montagna, Lorenzo, sua mamma, e soprattutto il padre, chino su di lui affinché «capisca una cazzo di volta quello che c’è scritto» nelle dispense per gli esami di recupero di fisica del terzo anno di liceo. Sente quello sguardo invecchiato, borioso, bruciargli sulla parte destra della faccia come un’abbronzatura sporca; sull’altra guancia sente un disagio incongruo per il tavolo poroso e squadrato su cui sono poggiati i quaderni, nero quasi ebano, tra l’altro un legno che non ha alcun motivo d’essere in un quattro stelle di montagna come questo. A un certo punto il padre dal nulla finisce a parlare di un suo lontano cugino, che lui non ha mai sentito dire, con ammirazione particolarmente strana perché il tema è la letteratura, la difesa dei falliti, lo scarto sterile di ogni efficienza del mondo: «prendi mio cugino P., è riuscito a fare dei libri un lavoro vero, quella sarebbe l’unica strada, a esserne capaci s’intende. Stipendio sopra la media nazionale, che pesa doppio perché lavora tre volte meno di me, due mesi di vacanza pagata l’anno, si gestisce tre donne in tre città diverse» nota che il padre è deliziato da questo punto in particolare, il perché lo capirà con due decenni di ritardo, «e tutti lo considerano un genio …». Lorenzo decide che è la strada giusta per farcela, e avere il diritto di mettere le mani addosso a quel vecchio.

Neanche cinque anni di relazione, e la sua compagna D. di fatto lo bacia all’angolo interno della bocca quando si ritrovano dopo qualche giorno, nei giorni normali a stento lo guarda – non ha avuto abbastanza talento, a quanto pare, per farla rassegnare alla vita a due. D. scopa da mesi con un sessantenne complessato con cui ha fatto delle gite organizzate sulle Alpi Liguri, che a momenti non mette due concetti in fila. Lui invece le offre una casa, la macchina, altri tre-quattro anni, biologia alla mano, per avere bambini, una presenza costante, la rendita immobiliare dei genitori che, tanto vale ammetterlo, ormai vale quasi quanto la chimera dell’indeterminato, se poi restano due più il gatto resta da parte una bella somma ogni mese … Non dovrebbe essere difficile convincerla a restare. Lei gliel’ha detto, per dargli un’ultima chance o probabilmente per prenderlo per il culo senza che Lorenzo se ne accorga: «Se vogliamo darci un’altra opportunità, fammi cadere ai tuoi piedi». Lui sceglie di rimanere in silenzio, ai suoi occhi il modo più semplice e sincero con cui potrebbe farla cadere ai suoi piedi adesso è un pugno dietro la testa la sera, mentre lava i piatti ogni volta con una quantità stupida di Svelto. Se si fa il confronto coi suoi coetanei lui è messo bene. Ha da offrire garanzie, amore, stima in eccesso rispetto alla media. A tanta gente, non meglio definita, lui piace com’è. Glielo dice dal niente una sera durante una cena felice in un ristorante che non si aspettavano, dietro Tiburtina, insomma, è lei che deve scusarsi e venire incontro, non tocca a lui. Insieme al peso delle sue parole avverte in bocca, troppo tardi, il sapore del proprio bluff. Lei invece piange: forse davvero.

Anche se ha meno di quattro anni, fa da solo la passeggiata dall’ombrellone allo stabilimento: per la prima volta, intuisce di avere un piano come i grandi. Il sole è sceso, non sa perché, e la plastica sotto i suoi piedi si colora di sabbia spenta da fine estate. Alla fine del percorso, sotto il bar, Lorenzo si è gonfiato di soddisfazione e vorrebbe dire a sua mamma che ha camminato da solo, per avere un Cucciolone. La cerca dove gli sembra logico dovrebbe essere. Sempre più convinto di non essersi sbagliato, è solo. Gira una decina di volte, poi perde il conto, amplia il raggio del giro e iniziano a fargli male i piedi, per il panico più che per la sabbia ancora scottante. Anni dopo mamma (nascosta in una cabina doccia per fargli uno scherzo) sostiene di essersi allontanata per neanche venti secondi. A lui non interessa, né in quel momento né mai. Tornato davanti al mare che incupisce, cerca di vomitare e si chiede qualcosa che non saprà formulare se non da grande, a letto con A. Perché, se ha obbedito e ha fatto tutto quello che era giusto, non ha quanto gli spetta? Perché non lo ha aspettato al tavolo di legno scurissimo del bar, come gli aveva detto? (Perché in un bar dei cinesi avevano messo un tavolo che sarebbe stato bene in una casa di cinquant’anni fa, invece della solita plastica bianca e rossa di Algida?)

Comunque, adesso il tasso di mortalità per chi ha il suo problema è importante, troppo alto per stare tranquilli. Se lo pronuncia ad alta voce, persiste nella paura insensata di evocarlo. A voler essere logici, e Lorenzo di solito passa per uno che lo è, si trova a un passo dall’annientamento. Ma non può smettere adesso con le bugie, se pospongono il momento di andare in pezzi. Quindi non salta una visita, convince i pochi parenti che lo seguono al Centro che guarirà: probabilmente perché, distorto dai farmaci, non ritrova quel minimo di talento che serve per dirsi in faccia le cose. Inizia a fare origami di foglie sul tavolo nerastro della cugina che lo ospita nella città dove fa “la cura”, lui che è negato per i lavori manuali, e fino a che (presume) non morirà, farà solo quello, bene. Di nascosto scrive poesie ridondanti che si proibisce di ritoccare anche solo col pensiero.

A quasi quarant’anni, precario senza possibilità di stabilizzarsi al centro di ricerca né di reimmettersi nel mercato di lavori del terziario povero che piuttosto si ammazza, estrapolando informazioni da parenti sparsi scopre che il lavoro di P. (che non ha mai visto ma solo sentito a telefono, e che ora vive in Spagna) non è quello che il padre credeva. Lorenzo è arrivato fin lì pensando che P. facesse il professore universitario e scrivesse sui giornali. Invece ha insegnato per vent’anni a scuola, di ruolo, peggio, alle medie, ancora peggio, immesso col ricorso. Quanto ai giornali, dovrebbe controllare in emeroteca, ma teme un caso di omonimia. Ha inseguito il desiderio mimetico sbagliato per quasi vent’anni. La disillusione, le letture universitarie gli insegnano, dovrebbe portarlo a un salto, a una conversione: ora avrà di che scrivere. Nei mesi successivi butta giù un paio di righe, tutte sballate, e molla, stavolta, per sempre.

Ha accumulato per molto tempo taccuini, quaderni di scuola, cancelletti, agende, segnapagine variopinti, penne di marche mai viste tutte col serbatoio pieno. Per darsi una disciplina con la scrittura, se li faceva portare da parenti e amici. Ora Lorenzo è in piedi davanti a loro, ordinati su quel tavolo marrone scurissimo, e tutto macchiato, che non ricorda da che mercatino ha preso. Ma visto che manca un po’ a cena e la luce dalle finestre è già mezza spenta come capita a ottobre, fa un gesto che si è sempre precluso: ne prende uno. A parte qualche parola sparpagliata sulle prime pagine, è vuoto. Più stupito che scocciato, apre un’agenda verde scuro a fianco, dove aveva steso la prima bozza per il premio Calvino di tanti anni prima – quello che poi ha vinto A. –, è sicuro di trovare righe compatte che, adesso non può non riconoscerlo, sono state inghiottite dalle righe bianche e nere dell’agenda vuota. Ecco, uno appresso all’altro, i fogli di tutti i taccuini, quaderni di viaggio e di scuola, agende gli si rinfacciano bianchi, tranne uno color mogano, riempito di una grafia bianca, fitta e senza alfabeto: in mezz’ora li ha sfogliati tutti. Guardandosi nel riflesso della finestra, ormai spenta, il suo sorriso lo tranquillizza. Non è reale, chiaro, e la fitta che lo sta trascinando a leggere non è che la spia di un sogno lucido. A questo punto, adotta la strategia che ha usato spesso da bambino: tira il collo all’indietro, di scatto, cinque o sei volte, ripetendosi mentalmente svegliati, svegliati, svegliati, in bilico sulle punte dei piedi. Continua a stare lì, i quaderni spalancati, gli occhi rinchiusi, finché, all’assestarsi del crepuscolo, sospende il respiro solo per un secondo, e dopo un tempo che non riesce più a misurare si rizza in posizione semisdraiata, pesto come se non dormisse da dieci giorni. Il suo corpo, troppo piccolo nel grande letto, gli fa male un po’ ovunque. Adesso il buio è rivestito da un bianco opaco e sporco, e una voce informe gli si fa vicino a scatti, due, tre, quattro, come camminando. Lui non ha smesso di scuotersi, cinque, dieci, venti, non fa nulla se perde il conto. Ecco, si convince, sta arrivando per lui.