Il marciapiede larghissimo della Broadway, su, oltre la Novantesima, e lo sparti-traffico con piante. L’aria è soffocante, umida. Dalle fogne emanano zaffate di odori fecali. La gente di New York è pulita, in metropolitana non si percepisce il minimo odore corporale, ma d’estate le strade puzzano, la città brulica di scarafaggi, l’aria è pesante. Mi sposto sul marciapiede est perché a quest’ora è in ombra.

Cammino verso sud, su larghe lastre di cemento, qui e là crepate riparate sostituite, i cigli di ferro curvati in corrispondenza degli incroci, immerso nel pragmatismo americano degli oggetti e delle soluzioni che non contemplano uno specifico giudizio estetico. E anche in quelle che lo contemplano. Quindi la standardizzazione, una certa non-curanza, la mancanza di pretenziosità nell’urbano e un certo senso morale della forma: o un edificio è realmente indiscutibilmente magnifico, oppure è normale. La sterminata piccola borghesia esprime i suoi valori para-estetici nelle periferie a casette. Penso queste cose mentre scendo verso Downtown con i piedi nei miei nuovi sandali Scholl. Non vorrei essere qui, mi sono pentito di essere venuto, non vorrei essere a New York. Fa troppo caldo è troppo umido, mi sto gonfiando, trattengo i liquidi, mi si gonfiano le gambe, dice Clara. 

Un disagio fisico che si oppone all’interesse che debolmente ancora provo per questa città.

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