Le belle parole.
Le frasi lunghe.
La punteggiatura abbondante.
I punti e virgola, in particolare.
I dialoghi senza virgolette né trattini.
L’aggettivazione parca e significativa.
L’assenza di omoteleuti involontari.
Niente ripetizioni, oppure le ripetizioni ossessive.
Le citazioni nascoste.
Le citazioni esplicite.
I personaggi che si chiamano C., R., T.
Le incidentali.
Il trattino lunghissimo al posto dei puntini di sospensione.
Gli specchi.
La varietà dei verba dicendi: «disse, rispose, replicò, aggiunse, soggiunse, insistette, chiosò» e così via.
A questo punto: il passato remoto.
Ancor più: il trapassato remoto.
Il personaggio che dice «io» senza mai svelare il suo nome se non nell’ultima frase.
Le storie in cui il protagonista legge un libro che parla proprio di lui.
Le storie in cui il protagonista scrive un libro e poi gli succede di incontrare i suoi personaggi per la strada o al supermercato.
Le storie in cui il protagonista cerca di scrivere un libro ma non ci riesce.
Le storie in cui il protagonista scrive un libro e nell’ultima frase si scopre che è il libro che abbiamo appena finito di leggere.
L’aggettivo «opalino».
L’avverbio «maggiormente» usato al posto del «più».
Il verbo «pervadere».
L’aggettivo «impercettibile» e l’avverbio «impercettibilmente».
I cenni del capo.
I sorrisi di sfida.
Il verbo «sorridere» usato come verbum dicendi: «“Non ti preoccupare”, sorrise lui».
I sorrisi tirati.
I personaggi che avanzano, si dirigono, si recano, giungono.
Le descrizioni minuziose dei capi di vestiario.
L’«eppure».
I personaggi che leggono un libro di uno scrittore americano che fa i dialoghi senza virgolette né trattini, oppure di Hemingway (in calo).
Le città immerse nel buio.
Le campagne immerse nel buio.
«All’improvviso» e «improvvisamente».
Parlare tra sé e sé.
I paletot (scritto proprio così).
I sospensori.
I cache-sexe.
Gli studi dei professionisti con le lampade di design.
I titoli di capitolo che proseguono nel testo: «L’uomo venuto dal nulla» (titolo di capitolo) «decise che era venuto il momento di fare qualcosa» (inizio del capitolo, minuscolo e senza rientro di inizio capoverso).
Le citazioni in esergo, specie se da Shakespeare o in latino.
I capelli intrisi d’acqua (in caso di pioggia).
Le parole dialettali nei dialoghi dei personaggi napoletani o siciliani.
Le email riportate con tutti i dati di spedizione: l’oggetto, il giorno, l’ora, l’indirizzo.
Andare a capo ogni volta che si mette un punto.
Le frasi nominali enfatiche: «La vide. Bella. Alta. Feroce. Indicibilmente stronza».
L’aggettivo «indicibile e l’avverbio «indicibilmente».
I capitoli che si possono leggere in qualsiasi ordine.
I sinonimi.
Le figure etimologiche.
I polisindeti, che fanno tanto incipit di Addio alle armi (in calo).
Gli occhi sfuggenti.
Lo sguardo sfuggente.
Una fronte sfuggente.
I personaggi degli anni Sessanta che invece di «sigaretta» dicono «ciconza».
I personaggi degli anni Novanta che invece di dire «sigaretta» dicono «paglia».
I personaggi degli anni Settanta che invece di «gomma da masticare» o «gomma americana» dicono «cingomma».
Le parole rubate a Carlo Emilio Gadda.
Aveva una faccia squallida.
La meticolosità nello scrivere «sia… sia», «a mano a mano», «a poco a poco».
Una barba importante.
Un mento debole.
Le battute di un personaggio che non fanno ridere gli altri personaggi.
Le scene in cui i personaggi cucinano, e si spiega esattamente cosa e come.
La ripetizione di una scena, pari pari, ma con una sola parola cambiata, a centoventi (o più) pagine di distanza.
Le descrizioni.
I ringraziamenti alla fine, soprattutto se si ringraziano scrittori morti.
Le note all’inizio in cui si spiega che fatti e personaggi del romanzo non hanno alcun riscontro nella realtà.
Lo strillo in copertina: «Basato su una storia vera».
Gli eufemismi creativi: «non si capiva un cetriolo» e sim.
Le righe bianche quando i personaggi si tolgono le mutande.
Le descrizioni di biancheria femminile in stile PostalMarket.
Le descrizioni di luoghi in stile Lonely Planet.
I monologhi interiori senza né punti né virgole.
Le ipallagi.
I tramonti da urlo.
Le vestaglie di seta.
I paragoni.
I verbi che dicono i versi degli uccelli.
Le razze di cani chiamate col loro nome esatto.
Le «persone di colore».
Nei passaggi più sentimentali, le anafore.
Le parole italiane al posto di quelle inglesi, dove possibile. (Ma, nei dialoghi, tutte le parole inglesi al punto giusto).
Le vacanze a Stromboli.
L’immigrato buono (come quello della pubblicità del dentifricio thailandese ai carboni attivi).
La sindrome postraumatica da stress, se chiamata ptsd.
Le canzoni dei Nirvana, citate bene.
I personaggi con nomi che non sembrano parlanti ma lo sono.
Non andare mai a capo.
I finali aperti.
I finali sospesi.
I non-finali.
I gran finali.