Il suo desiderio è scrivere un racconto, un racconto lungo, magari un romanzo, anche breve, in cui un attore, nel bel mezzo di un monologo – potrebbe trattarsi di una pièce tutta monologante, di una pièce di teatro di narrazione –, s’inceppi: gli viene a mancare la memoria, non sa più cosa deve dire, non ricorda quasi nulla del testo che sta recitando, non è in grado nemmeno di improvvisare – gli attori, si sa, spesso improvvisano, quando dimenticano la battuta ma hanno comunque bene in mente che cosa deve accadere, come prosegue la storia; si aiutano anche tra loro, può capitare che nel bel mezzo di un dialogo un attore s’inceppi e allora il suo collega, quello in scena con lui, improvvisi per dargli il la, per ricondurlo al testo della pièce; i più bravi riescono a trasformare l’inceppamento in un’occasione drammatica, in un effetto particolare, in qualcosa che gli spettatori, poi, dopo l’uscita, tra le sigarette e le discussioni su dove andare a cena, ricorderanno come un momento particolarmente intenso; non è questo che accade al suo attore, no, il suo attore si inceppa e basta, è solo sulla scena, non c’è un suggeritore, non c’è un gobbo da cercare con l’occhio, l’attore è fermo a metà di un gesto, per esempio con una mano protesa, tutto il braccio all’altezza della spalla, come uno che indica, e l’altra sul petto; un gesto retorico, un gesto di quelli che tutti gli spettatori capiscono, quindi forse l’attore, pensa, non è un grande attore, o la pièce messa in scena non è una grande pièce, o il regista ha voluto andare incontro al pubblico – ma negli one man show spesso l’attore è anche regista, se non addirittura autore del testo: ecco, il suo attore è solo, ammutolito, sta recitando un lungo monologo scritto da lui stesso, la cui regia ha lui stesso curato, dunque dovrebbe sapere tutto, non dovrebbe nemmeno aver problemi a improvvisare, e tuttavia s’inceppa, non sa più cosa dire o fare; c’è una musica, ecco, c’è una musica in scena, magari un violoncellista, che è lì che aspetta la battuta – la battuta che l’attore non ricorda – per avviare una breve sequenza di note, ed è già pronto con le dita sulla tastiera e l’archetto sospeso in aria: un violoncellista mancino, pensa, non sa perché ma s’immagina un violoncellista mancino, il braccio sinistro sospeso in aria, la mano destra sulla tastiera, gli occhi rivolti all’attore – ha davanti a sé un cavalletto, certo, ma lo spartito gli serve più per ricordare in corrispondenza di quali battute deve attaccare che per le note, quelle che deve suonare sono melodie semplici, semplici melodie d’effetto; questo mi conferma, pensa, che si tratta di una pièce da quattro soldi, un monologo narrativo accompagnato da una gestualità retorica e da una musica altrettanto retorica, dunque siamo in un teatro di provincia, l’attore è una gloria locale, il violoncellista è uno studente di conservatorio, il pubblico è un pubblico di persone che vanno a teatro così, per passare la serata, o magari un pomeriggio, persone che allo spettacolo chiedono solo di attraversare con facilità quel paio d’ore, non più di due ore per carità, e di portarsi a casa qualche battuta da ripetere, qualche scena divertente, qualche sentimento standard: ma all’inizio pensavo a un grande attore, pensa, un grande attore che s’inceppa, s’inceppa e mentre resta lì, immobile, col gesto e con la frase sospesa, senza più memoria di cosa deve dire o fare, nella testa gli entrano pensieri che non hanno nulla che fare con lo spettacolo, pensieri magari sollecitati dall’ultima battuta detta – una battuta già detta tante volte, perché non sarà certo una prima, e che tante volte era passata senza fare danni, parole come tante altre, e in quest’occasione invece funziona come un interruttore, un deviatore, un accendino, qualcosa che fa clic: clic, e tutto si spegne, la scena non c’è più, il teatro non c’è più, il pubblico non c’è più, il violoncellista non c’è più, il corpo stesso dell’attore non c’è più: resta la sua mente, nella mente passano pensieri, tutto il racconto dovrebbe essere fatto di quei pensieri, pensa; e poi, finiti quei pensieri, un altro clic, e tutto riprenderebbe, ricomparirebbero la scena il teatro il pubblico il violoncellista il corpo dell’attore, come se nemmeno una frazione di secondo fosse trascorsa; l’attore, solo l’attore saprebbe che cosa è successo, solo l’attore ricorderebbe i pensieri che sono passati per la sua mente tra il primo e il secondo clic, pensieri che a scriverli sulla carta, penserebbe l’attore, ci vorrebbero molte e molte pagine, e il racconto potrebbe evolvere così: che l’attore, finito lo spettacolo, va all’albergo e si siede e scrive, scrive tutto ciò che gli è passato per la mente tra il primo e il secondo clic, ma attenzione: ciò che gli è passato per la mente è già stato raccontato, nel racconto, il lettore già sa che cosa è passato per la mente dell’attore tra il primo e il secondo clic, farò un grande uso di indiretto libero, pensa; e quindi l’attore, nel momento in cui si siede a scrivere, scriverà qualcosa di completamente diverso, sarà convinto – l’attore – di scrivere parola per parola ciò che gli è passato per la mente tra il primo e il secondo clic, e invece scriverà qualcosa di completamente diverso, costringendo il lettore a domandarsi quale relazione ci sia tra i pensieri che effettivamente sono passati per la mente dell’attore e i pensieri completamente diversi che effettivamente l’attore scrive, poco più tardi, nella sua camera d’albergo, convinto di scrivere i pensieri che gli sono passati per la mente tra il primo e il secondo clic: ovviamente non ci sarà nessuna relazione, pensa, il bello è questo, abbiamo qualcosa che si ripete e nella ripetizione possiamo accettare che ci siano delle variazioni, delle trasformazioni, ma ciò che è inaccettabile, pensa, almeno per il lettore standard, è che nella ripetizione nulla effettivamente si ripeta, non i pensieri, non gli eventi ricordati, non l’ordine e la sequenza di eventi e pensieri, non l’eventuale simmetria formale: nulla, nulla, proprio nulla, e bisognerà stare attenti, pensa, a non fare qualcosa di diametralmente opposto, per esempio che in scena passano per la mente dell’attore dei pensieri tragici, e poi nella camera d’albergo scrive qualcosa di sfrenatamente comico, o viceversa, perché il rovesciamento è la forma più evidente del rispecchiamento: dunque scriverà, l’attore, nella sua camera d’albergo, un testo che non possa esser fatto cozzare con il testo precedente – il racconto di ciò che effettivamente gli era passato per la mente sulla scena, tra il primo e il secondo clic –, un testo la cui interazione con il testo precedente non produca nessun significato: e dunque, pensa, bisognerà riflettere su quale sia il significato di questa mancata produzione di significato, cosa che però non ho voglia di fare e dunque basta, questo racconto o racconto lungo o romanzo breve non lo scriverò, non ho voglia di mettermi in una faccenda come questa.
E dunque cosa ha scritto?
Ha scritto un racconto lungo nel quale l’attore, tornato nella sua camera d’albergo, scrive esattamente le stesse parole che il lettore ha lette quando passavano per la mente dell’attore: una ripetizione perfetta.
Scommetto: poi si sveglia, ed è tutto un sogno.
No: poi si addormenta e sogna, e nel sogno ripete ancora, il sogno riprende esattamente tutti i pensieri che gli sono passati per la mente lì, sulla scena.
E quando si sveglia?
Quando si sveglia torna a casa, tre ore d’automobile, e al pomeriggio ha l’appuntamento con l’analista: al quale racconta ancora, parola per parola – l’analista non accetta di leggere il testo scritto –, i pensieri che gli sono passati per la mente sulla scena.
E l’analista cosa dirà?
Niente, è freudiano. Ma molti anni dopo, quando l’attore avrà finalmente terminata la sua analisi, scriverà un caso clinico nel quale, grazie alla precisione dei suoi appunti, riporterà, senza sbagliare neanche una parola, i pensieri che erano passati per la mente dell’attore sulla scena, che l’attore aveva scritti subito dopo, che gli erano ritornati in sogno, che aveva raccontati all’analista stesso.
E quindi, finalmente, ci sarà un’interpretazione.
No. L’analista interpreterà i pensieri, ma non la ripetizione.