Un giorno era tornato dalla palestra. Prima di infilarsi in doccia, mi ha chiamato. Guarda, ha detto, marmo. Ho stretto le dita fino a farle gialle, mentre mi incitava a colpire. Sotto l’addome i fasci di muscoli si rassodavano in blocchi rettangolari. Non riuscivo a scalfirli in nessun modo, ho finito per farmi male alla mano. Mio marito ha scambiato il mio sguardo di invidia per ammirazione, ha fatto un mezzo sorriso e mi ha dato una pacca sul culo.

Ho cominciato anch’io ad allenarmi, rallentando il più possibile il respiro. Lui si allena tutti i giorni tranne la domenica, io solo quando nessuno mi vede. L’ho letto su internet: c’è gente che sa addestrare i muscoli del petto e i polmoni a trattenere l’ossigeno così tanto che il cuore riesce a diminuire il ritmo. Qualsiasi incapace può riuscirci, dice sempre lui, non importa a proposito di cosa. 

Con un respiro preso bene, finora sono riuscita a raggiungere trentanove battiti. Quindi è solo questione di tempo.

Quando gli ho detto che ci stavo provando, lui mi è scoppiato a ridere in faccia. Non ci sono riuscita, di fronte a lui. Forse ho perso il filo, mi ero distratta: è una noia contare i secondi fino a un intero minuto. Appena arrivo a ventinove, trenta, mi viene da pensare se non ho dimenticato di prendergli le uova fresche, che la mattina se non le trova sai l’inferno che accende! Dice che il giallo dell’uovo è più giallo, o più arancione, comunque è di un colore diverso, e non mi metto certo a discutere. Non posso neppure prendere al supermercato quelle allevate a terra, perché oramai ci stampigliano sopra il numero, e così mi distraggo, e devo aver perso il filo. Magari non erano trentanove battiti, magari erano quaranta, quarantacinque. Mi sarò sbagliata. Non è un buon motivo per offendere e darmi della cretina. Non è un buon motivo neppure per spaccarmi il sopracciglio tirandomi in faccia il telecomando, ma alla fine avevo davvero dimenticato di prendergli le uova, quindi la colpa è mia.

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L’altro giorno ho lasciato perdere il respiro e sono riuscita a farmi pianta, per uno o due minuti. Ero da sola, avevo quasi finito tutti i servizi. Sono entrata nel salone, il sole filtrava senza mostrare nessun omino di polvere in controluce, per una volta. Mi sono avvicinata al termosifone spento. Mi domando perché chi progetta le case deve ostinarsi a montare i termosifoni sotto alle finestre, dato che lì il calore si disperde molto più velocemente. Ho toccato gli elementi con la mano ed erano freddi, così ho smesso di preoccuparmi: non c’era niente da disperdere. La tenda attutiva la luminosità, offuscando quei segni di dita sul piano di cristallo; ho potuto rilassarmi, e ho pensato di sedermi sul divano che non usiamo mai.

Ho chiuso gli occhi sentendo l’ossigeno filtrare dalla pelle e riempire la stanza. Ho cominciato a produrre glucosio, sentivo sulla lingua il sapore dolce della fotosintesi, poi il citofono ha suonato. Ho aperto gli occhi e sono corsa a rispondere. 

Ho dato le banconote al corriere e ho richiuso svelta la porta. Non sono più tornata alla finestra, ormai la stanza era tutta piena di polvere; ho tolto la polvere, ho messo a posto lo Swiffer e poi ho abbassato le palpebre e ho cominciato a contare, trentanove, quaranta, e mentre il ritmo sotto lo sterno rallentava, poggiata al muro del vano lavanderia, ho sentito con sollievo che stavo diventando parete, e la schiena che si spezzava in tanti riquadri otto per otto quante sono le piastrelle; stavo iniziando a sparire nelle fughe. Poi si è spalancata la porta a scrigno e il bambino mi ha urlato.

Ho fameee.

Ho preparato un panino come al bambino piace: pane proteico, strabordante di maionese, con l’olio del tonno sgocciolato malamente e doppio formaggio. Mi toccherà seguirlo con l’asciugatutto dalla cucina alla playstation, di solito sparge il condimento ovunque. Sempre meglio che sentirlo urlare e piagnucolare e fare capricci.

Se non fosse stato in palestra, mio marito l’avrebbe difeso: per mettere su massa muscolare servono proteine e grassi, avrebbe detto. Pure tu dovresti mettere su massa, sei tutta pelle e ossa, avrebbe detto, e poi mi avrebbe chiesto se ho già smesso di allenarmi.

Il bambino, intercettando il suo sarcasmo, avrebbe riso di me con la bocca aperta, quasi strozzandosi col boccone ma senza riuscirci. Sono uguali, tutti e due: corti e larghi come una mattonella al ragù, e con la pelle unta allo stesso modo. Il bambino ha preso tutto da lui, che d’altra parte è suo padre. Da me non ha preso niente, come se non fosse mai stato nutrito col mio cordone ombelicale, o come se il primo sangue da cui è mai stato ricoperto non venisse da me. Io ero sedata, e non ho altra scelta che credere a ciò che mi è stato raccontato: che il bambino è uscito proprio da me, e da nessun’altra.

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Mentre il bambino mangia, io vado in camera, mi siedo al buio e cerco con tutta me stessa di diventare un fungo, con grande accanimento. Quasi subito sento un calore tra le gambe, una fiammata improvvisa, come se qualcuno avesse acceso sotto di me la carbonella del barbecue. È il micelio, si espande e cola giù: stavolta lo sento così forte che quasi ho paura possa spaccare le lastre di gres porcellanato, radicandosi in tutto il palazzo fin dentro alla sala condominiale. Avverto un fremito, le mie gambe si saldano in una, e diventano gambo. I miei capelli, che normalmente pendono flosci ai lati della fronte, ora invece si raggrumano in sottili lamelle vaporose, troppo delicate per sfiorarle anche solo con la punta delle dita, mentre il mio cranio si allarga e prende la forma piatta di un cappello. Fra non molto le lamelle, giunte a maturazione, rilasceranno spore: sarei lì lì per moltiplicarmi, se il bambino quasi non demolisse la porta della camera con quelle dita grassocce e unte.

Sospiro. Apro gli occhi. Stupefacente quanto svelte sono state le mie gambe-gambo a disunirsi. Rassicuro il bambino e mia madre che non è niente, solo un po’ di debolezza, nulla di più. Piano piano, cercando di non farmi venire i giramenti di testa, mi sollevo aggrappata ai braccioli della poltrona. 

Mia madre è venuta a trovarci ieri. Ufficialmente viene a darci una mano col bambino, ma so benissimo che è qui per aiutare il bambino a proteggersi da me. Ha già messo in tavola, e protestare sarebbe inutile. Accetto di sedermi e provare ad inghiottire qualcosina, mentre lei ride di gusto alle battute di mio marito. Lui le piace molto – dal primo momento le è piaciuto. Per il suo compleanno non manca mai di mandarle un biglietto e una mezza dozzina di rose. Ogni volta che in sua presenza mi chiama tesoro, dolcezza e amore mio, mia madre mi guarda come se fossi un’ingrata, o, peggio, una stupida. Mentre prepara, mi impedisce di aiutarla anche solo ad affettare i pomodori, bloccandomi le braccia con una presa ferma che nessuno le sospetterebbe.

Devi riposare, io sono qui apposta, mi dice; se non riposi io cosa ci sono venuta a fare? 

Mi concentro sugli schizzi di sugo che ha fatto arrivare fin sotto la cappa e dappertutto sopra i fornelli, perché mia madre non mette mai i coperchi sopra le pentole.

Quando eri bambina mangiavi anche le pietre e ora guardati, come sei magra.

Finito di affettare, mia madre carica la lavastoviglie e la mette in moto senza neppure un goccio di aceto nella vaschetta. Dovrò aspettare che tutti dormono per ripetere il ciclo da capo, stavolta con il programma a sessanta gradi, per cancellare gli odori. Mi siedo zitta e al mio posto, cercando di non scoprire la schiena. Avrei dovuto indossare una maglia meno corta. Se chiedessi un giacchetto, forse comincerebbe a tempestarmi di domande. Per un momento, quasi mi ci perdo, in simili fantasie: che possa sapere, che possa afferrarmi il braccio all’improvviso, scoprirlo fino al gomito. Che cosa sono questi segni neri, potrebbe chiedermi, mentre le va di traverso il boccone di pane col quale ha tirato su dal piatto gli ultimi filamenti di uovo strapazzato nella salsa, che cosa sono, rispondimi, e poi, senza ottenere da me altra smentita che un lungo silenzio, potrebbe alzare lo sguardo su di lui, e finalmente comprendere che razza di uomo, eccetera. Lasciamo perdere. È meglio limitarsi a passargli la saliera, come ha chiesto gridando, perché a quanto pare non stavo a sentire le prime due volte in cui l’aveva chiesta con gentilezza.

Sorrido, a questo punto, limitandomi ad aderire il più possibile all’imbottitura, per diventare parte della sedia. 

È tutta questione di volontà.

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Prima di andare a dormire, bisogna che ci rintaniamo di là mentre i maschietti – questo è il termine con il quale mia madre si riferisce a loro ogni volta che parla di mio marito e di mio figlio – mentre i maschietti si rilassano. Dice maschietti per poter aggiungere con aria svanita: così ce ne restiamo un poco sole noi due, sottovoce. Mi trascina giù con sé, sopra i cuscini del divano, aggrappandosi al mio braccio pesto. Poi, il viso illuminato dal telefono, comincia a scrivere messaggi con solo il dito indice e una lentezza esasperante, senza rivolgermi mai la parola per il resto del tempo. 

Ho tolto tutte le coperture e le pellicole protettive dai divani, dato che aspettavamo la visita di mia madre. La tappezzeria è dura, prude a contatto con la mia pelle senza giacchetto, ma lei non si accorge di nulla. Il divano in cui quasi sprofondo fa a pugni con il resto dell’arredo, che lui ha voluto essenziale, sobrio, contemporaneo – vetro, marmo – come sono i salotti delle case sulle riviste che sfoglia di nascosto quando, seduto al computer dell’infopoint, in palestra, lui pensa che nessuno lo vede. È broccato floreale su fondo nero, con stampe di palme, uccelli, felci tropicali, foglie enormi di color verde brillante e bottoni di strelitzia arancio e fiori d’ibisco rossi e viola: una cosa orrenda, ormai scolorita; ce lo ha inflitto sua zia morendo e, tutti i mesi, per un motivo o per un altro, non avevamo soldi per rifoderarlo.

Mentre il viso di mia madre cambia colore al lume dei messaggi inviati sul gruppo da qualche sua amica del bridge, io scivolo piano nella vegetazione lussureggiante che mi circonda e avvolge in umidi vapori. So che l’acqua potrebbe condensarsi sotto le cosce e pendere verso il lato del cuscino in cui mia madre è sprofondata: per non bagnarla, cerco di farmi più stoffa che posso e di trattenere il respiro.

La sensazione di dissolvermi nell’ordito è confortevole, quasi non sento i solchi che tanti corpi negli anni hanno lasciato, logorando l’imbottitura delle sedute. Mi sento fatta di fibra sintetica, adattabile, indifferente ai colpi, come un bracciolo del divano. Gli occhi non riescono subito ad abituarsi al buio. Le ciabatte sono rimaste posate di fianco al tappeto persiano, devo procedere scalza. Solo perché l’ho desiderato a lungo, non significa che non posso aver paura.Incedo sul terreno, bruno e umido, sentendo il viscido dei lombrichi sotto i piedi che affondano nel fango; i loro corpi invertebrati si aggrovigliano come fanno gli spaghetti nella gola prima di sbattere sui denti. Annaspo, cerco aria, ingoio ossigeno a morsi: piano, col battito, si placa anche la paura, il movimento sotto i piedi si ferma, la strada si fa più battuta. Sono da sola in questo mondo di stoffa, eppure avverto la presenza di qualcuno; sotterranea, quasi inudibile nella distanza. Una voce interiore, o una richiesta d’aiuto. Comincia a piovere sui miei capelli, sopra la finta seta della mia vestaglietta rosa pallido. Nei punti dove gli alberi si diradano vedo animali che passano nel cielo notturno senza stelle – enormi, sembrano aeroplani, mentre tagliano le nuvole. 

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Devo trovare un riparo, mi dico, e subito la foresta tropicale sintetica col suo trionfo scolorito di strelitzia svapora, lasciando il posto alla sagoma di una piccola città. Le case sono vuote, o forse la gente è asserragliata dietro le tende, ma al primo slargo vedo l’insegna illuminata di un minimarket, con le vetrine ingombre di scatole e fustini e provole e salumi e scope. 

Supero la zona avancasse senza incontrare nessuno. La merce è ben ordinata sugli scaffali, ogni etichetta si offre per il verso diritto e non c’è traccia di polvere. Sento l’impulso di allungare il braccio verso la più vicina pila di scatole di tonno sott’olio e buttarla giù, e tutta quella perfezione disgregata mi fa godere.

Buonasera, mi saluta la ragazza in cassa.

Sorride, si passa la punta della lingua sopra l’acciaio lucente del piercing. Senza parlare e senza distogliere lo sguardo, trova il dispenser delle caramelle e le rovescia con tutti i loro recipienti, che sono di vetro, e mandano intorno uno scroscio cristallino, come acqua di sorgente, toccando terra. Vanno in frantumi così anche i miei scrupoli residui.

La ragazza scavalca con un salto il divisore di plexiglass, facendo leva sul polso sottile, e l’aria risuona di braccialetti d’argento, e lei mi prende per mano. 

Possiamo rovesciare il contenuto di enormi pacchi di patatine sul pavimento e ballare al ritmo del loro crepitio in una nuvola fragrante di lime e pepe rosa. Possiamo lanciarci contro grosse manciate di latte in polvere – con prebiotici anti-rigurgito!, per mamme costrette a confrontarsi con quantità insufficienti di latte materno! – e fare battaglie di palle di batuffoli leva-trucco senza cloro doppia qualità, e poi crollare sfinite in terra facendo gli angeli sul pavimento.

Lei fa passare il piercing attraverso la fessura delle labbra, ancora e ancora, guardandomi fisso. Mi chiedo se ne abbia altri e, prima anche solo di pensare che sarebbe giusto fermarsi, mi ritrovo a fissarle i capezzoli sotto la maglietta bianca.

Ride ancora, si avvicina, mi bacia sulla bocca. La sua lingua ha il tocco freddo della pallina di metallo del piercing – vorrei inghiottirlo come pastiglie alla melatonina per favorire il sonno. Anche i suoi capelli fanno venire voglia di raccogliersi sulla sua spalla e dormire al sicuro, odorano di shampoo alla camomilla. La immagino senza vestiti, mentre mi infila in bocca acini d’uva da cui ha tolto la pelle. Mi domando perché i padroni dei corpi si incaponiscano a farci camminare per la strada costretti nei vestiti. Staremmo più comodi, senza. La ragazza ha gesti fermi. Io concedo il permesso ad ogni sua domanda di controllo. 

Decidiamo di uscire, in strada le nuvole si sono diradate. Ora la luna manda bagliori che rischiarano la campagna intorno, i fossi pieni di ossa lucide.

Vorrei essere io a guidarti, non ho bisogno di formulare il pensiero perché lo recepisca. 

Neppure lei deve muovere la bocca perché io sappia che non devo scusarmi di niente. Non ho paura di essere fraintesa. Andiamo insieme dentro la notte screziata di luce lunare senza sentire freddo, né gli animali selvatici possono farci più del male, gli aeroplani hanno smesso di cadere, la nostra pelle come una corazza di tenero alabastro, sola, a contenerci.

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