L’appartamento l’aveva acquistato dopo i centomila follower. L’agente immobiliare le aveva detto che negli ultimi anni era stato affittato per eventi, mostre e shooting, e che a richiedere una visita erano sempre più gli asiatici arricchiti e sempre meno i calciatori. Non era spazioso come appariva dalle foto degli annunci, ma il soffitto del soggiorno esibiva pregevoli pitture a stucco nello stile di Poussin. Erano un po’ stinte nei colori più intensi e caldi, ma ancora incantevoli per l’obesità rosea delle carni dei beati: trascorso il tramonto, disposti a raggiera attorno a Dio, assumevano un velo ranciato al barlume del Buddha abat-jour fosforescente. All’arredatrice aveva chiesto di conciliare lo stile minimal di acciaio e corian con l’impronta vibrante della boiserie XVIIIème siècle. Un’artista svizzera specializzata in intarsi le aveva scolpito una serie di orologi a pendolo ispirati agli spazi siderali, coprendo di stelle alabastrine il fondo di vernice blu di Persia di cui aveva intinto le casse e i piedistalli. Erano tutti in legno di castagno. Il loro messaggio, stando alla gallery del sito, consisteva nella riscoperta di un tempo da percorrere sempre a passo lento, con gli occhi chiusi e il cuore calmo di una rinnovata consapevolezza. Allo scoccare di ogni ora emettevano suoni binaurali per indurre il cervello a rilassarsi. Ne aveva disposto con cura uno in ogni ambiente, ma a distanza di un anno alcuni andavano aggiustati. A dire il vero, Giorgio avrebbe voluto valorizzare meglio il secretaire di mogano. Lei godeva in segreto per la rubinetteria d’onice laccato. E poi dal fruttivendolo vedeva ogni tanto la Canalis con la mano tra le fragole.

Rientrata in casa chiuse il portone a tre mandate. Barcollò fino in camera da letto, sorrise senza accorgersene e si sfilò l’abito in twill di pura seta, auscultando il suo fruscio cedevole lungo la pelle gentile, tiepida, brunita dal sole delle Dune di Piscinas. Si struccò con tocchi sommari davanti alla specchiera Luigi XV, canticchiando un brano pop latino, mentre masticava una Vigorsol con energia. Poi notò che un’anta dell’armadio era rimasta spalancata. Di solito si assicurava di aver girato le maniglie con la massima attenzione per evitare che gli abiti si coprissero di polvere; quando si avvicinò per rimediare si accorse che Giorgio aveva portato via i propri vestiti. Perlustrò le stanze con una rapidità dettata dall’irritazione. Di tutti quegli oggetti da uomo che avevano popolato molti spazi vuoti nelle sue giornate ritrovò solo un paio di pantaloni stropicciati, un rugginoso portachiavi dell’Inter e un flacone con le ultime gocce di un profumo Armani che gli aveva regalato per Natale. Sul tavolo da pranzo giaceva una catasta di bollette. Dalla cesta dei panni pendeva il lembo di un calzino a quadri. Non c’era alcun biglietto appiccicato al frigo.

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Andò a distendersi sul divano in pelle di bufalo, “il vero re del living”, come l’aveva definito l’arredatrice. Sotto l’aureola d’ambra di una lampada da terra arcuata Dyson, il gomito languido contro le grinze di un cuscino, sfogliò cataloghi di hair style con mignolo e anulare, avendone presto un senso gravissimo di sfinimento. Si piegò a fatica per raccogliere il telecomando, che era caduto sul tappeto di Isfahan, e accese la televisione sospirando.

«… dello scandalo che sta scuotendo dalle fondamenta il mondo del cinema italiano: il produttore Carlo Braida è stato denunciato per le presunte violenze sessuali ai danni di Isabel Casteddu, l’attrice sarda divenuta celebre nelle vesti di suor Gerlanda nella fiction Rai Che Dio ci assista 5. Abbiamo qui con noi Carlo Freccero… Anche se mi dicono che il collegamento da Milano non è pr…»

Azzerato il volume, se ne stette taciturna e torpida, mentre osservava le immagini venire e andare come pesci in un acquario. Ebbe caldo. Si rinfrescò con un ventaglio. Prese il telefono e ordinò il sushi su Just Eat. Poi scrollò i messaggi di sostegno che le avevano mandato. Tra questi, non pochi giornalisti in cerca di dichiarazioni per la prima pagina, autori televisivi che speravano in una sua telefonata, persino editori che avevano buttato giù una scaletta per la sua autobiografia («ispirata alla monaca di Monza, ma più autentica», aveva suggerito uno di loro), nonostante sul profilo avesse precisato che per un po’ si sarebbe presa del tempo per sé stessa. Infine incappò in un messaggio della Comencini: «Cara Isabel, la tua vicenda mi ha sconvolto. Volevo dirti che mi dispiace tanto per tutto quello che hai subito. Coraggio! Quando hai voglia, facciamo un bel documentario. P.S.: Dobbiamo unire le nostre forze, sempre!».

Isabel si alzò e si mise a saltellare per la stanza gridando di giubilo, finché picchiò con l’alluce contro la zampa di una sedia in cuoio e ferro, crollò sul pavimento e si contorse per il male. Gli orologi a pendolo suonarono le tre, diffondendo rumori celestiali in tutte le stanze della casa. Quando si riebbe, riagguantò lo smartphone.

«Carissima Francesca” rispose con le dita tremule, «innanzitutto grazie. Forse non sai quale autentica ammirazione io provi per te, perciò sono onorata e lusingata per la tua richiesta». Andò su Wikipedia. Due minuti dopo, aggiunse: «Sei la mia regista preferita fin dai tempi di Carlo Giuliani, ma ho visto anche Pianoforte e tutti gli altri e ne amo ogni singolo fotogramma alla follia. Ora ho bisogno di stringermi un po’ nel mio dolore, ma considerami fin da subito la tua alleata principale. A presto, prestissimo».

Poi tolse il giocattolo dal fondo del cassetto e si spogliò. Era lungo, duro e duttile. Nuda sul divano, contemplò gli affreschi traendone piacere.

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*

Il giorno dopo andò su Uno Mattina e pianse. Le lacrime le rigarono le gote scintillando sotto i riflettori e tutti in studio si commossero. «Sei ancora più bella quando soffri» le disse il presentatore Timperi, «ma vorremmo vederti così solo nei film, quando lo fai per finta». Il pubblico applaudì. In difesa di Braida il giornalista Sansonetti pronunciò le parole “garantismo” e “macchina del fango”, citando il caso Tortora e un comico stand-up americano. Una blogger del Fatto lo interruppe. Il pubblico fischiò. Timperi mandò la pubblicità.

Quando fu di nuovo a casa, Isabel era così stanca che non accese nemmeno la televisione, ma corse in camera a svestirsi. Fu allora che, afferrando il giocattolo, le parve che fosse diventato un po’ più grande. Scacciò il pensiero e lo portò in soggiorno, stendendosi ancora sul divano. Dalla finestra socchiusa colava un residuo smorto del crepuscolo, illuminando di golfi argentei la superficie scrostata degli affreschi. Mentre li guardava provò un accenno di dolore; poi le piacque, forse più del solito. Quando, dopo averlo lavato, rimise il giocattolo al suo posto, non entrava più nella custodia.

Giorgio intanto le aveva scritto su WhatsApp per chiederle un incontro.


 
*
Isabel uscì di buon passo dalla stazione della metro, urtando per sbaglio un passeggino, e si diresse in Galleria sbattendo i tacchi. Prese l’ascensore e giunse al bar sulla terrazza.
«Non me ne avevi parlato» disse Giorgio quando la vide venire elegante, decisa, gracile, portando due buste di Burberry e Christian Dior.
«Ciao, eh» fece lei mentre posava le sue compere e gli si sedeva accanto mollemente, dandogli un bacio sulla guancia senza levarsi gli occhiali da sole. Poi si volse intorno piano piano e, come per un gesto distratto, automatico, appoggiando il mento a un pugno, con discrezione contò gli sguardi dei curiosi.
«Potrei sapere perché?»
«Scusa, non ho voglia di parlarne. Che ne dici se mi vai a prendere uno spritz?»
«Ti sembra normale che io lo venga a sapere da un post su Instagram? L’ho scoperto perché me l’hanno scritto nel gruppo WhatsApp del Fantacalcio. I miei amici, quelli che disprezzi».
«Ora lo sai e basta».
«All’inizio pensavo fosse uno scherzo. Stavi già con me?»
«Piantala».
«Perché non mi rispondi? Non è una cosa che mi riguarda?»
«No, non ti riguarda. E scusami tanto, ma non ho bisogno di sentire quanto quello che ho subito sia stato difficile per te».
Giorgio scosse la testa: «La verità è che ti sei sempre vergognata, di me: per questo mi tratti come un estraneo».
Alcuni occhi si girarono. «Abbassa la voce» disse lei.
«Tu rispondimi».
«Non mi vergogno di te, Giorgio. Sono stanca di ripetertelo. Non m’importa nulla dei tuoi genitori, se sei nato povero…»
«Voi ve ne fottete dell’amore».
«Noi chi? Ancora con questa storia di noi VIP? Non sono una VIP, chiaro? Lavoro nello spettacolo, se per te va bene».
«Be’, adesso hai fatto un bel salto in avanti. Anzi, scommetto che l’hai pensato subito mentre Braida ti toccava. Magari ti è pure piaciuto».
«Quindi è tutto qui? Vuoi lasciarmi semplicemente dandomi della puttana? Mi deludi».
«È quello che ho sempre fatto».
«Deludermi o darmi della puttana?»
«A questo punto fa davvero differenza?»
Qualcuno si mise a scattar loro una raffica di foto. Lei finse di leggere qualcosa sul suo smartphone. Poi disse: «Non mi è piaciuto, va bene?».
Sul viso di Giorgio si allargò un sorriso amaro: «Ah, buono a sapersi. E questo dovrebbe farmi sentire molto meglio, giusto?».
«Intendo dire che in ogni caso non ne avrei avuto modo. Per questo non te ne ho parlato. È stata una cosa a fin di bene».
«Che cosa significa che non ne avresti avuto modo?»
«Quello che ho detto, Giorgio».
«Senti, mi sono stancato di questa storia, me ne vado».
Lei lo trattenne per un braccio: «Aspetta! Per favore… Siediti».
Lui esitò, diede uno sbuffo, obbedì.
«Non è successo niente, ok?» lo rassicurò lei, a voce molto bassa. «Me lo sono inventato sul momento, durante l’intervista. Ho pensato che potesse aiutarmi a uscire dalle difficoltà, non solo le mie, anche le nostre. È dal film su Cavour che non mi danno una parte decente».
Giorgio l’aveva ascoltata tormentando un tovagliolo. Il collo rigido, dovette sforzarsi per dire: «Mi stai dicendo che Braida è innocente?».
«Avremo un sacco di opportunità».
«È questo che mi stai dicendo, Isa? Per pagare i tuoi orologi rovini la vita a un produttore?»
«Ho quasi raggiunto il milione di follower».
In piazza Duomo una turista urlò, spaventata dal volo radente di un piccione.
«Non sei una puttana. Sei una stronza» disse lui; e allontanandosi urtò un tavolo, facendo cadere una tazzina, che rotolò tintinnando sul tappeto di bambù.
«Sai che m’importa!» gli gridò lei osservandolo sparire.

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*

Quando rientrò in casa gli orologi a pendolo suonavano le nove, diffondendo le onde theta adatte alla meditazione. Alle buste di Burberry e Dior se n’erano aggiunte due di Prada e Gucci. Isabel distribuì i capi negli scomparti dell’armadio. Mentre ripiegava con cura un maglioncino di cachemire, notò che la punta del giocattolo emergeva dal cassetto, come se nel tempo in cui era mancata avesse spinto per trovare un po’ d’ossigeno. Allora lo tirò fuori e, senza nemmeno spogliarsi, se lo aggiustò sul basso ventre per sentirsi un maschio, facendolo oscillare in su e in giù, prima con gentilezza e poi via via più brutalmente; infine puntandolo allo specchio. Si esaminò a lungo, tanto di fronte come di profilo, finendo sempre col dirsi, con una strana soddisfazione, che era enorme, forse persino raddoppiato.

Entrò in soggiorno e si abbandonò supina sulle mattonelle di marmo, al centro della stanza, gli arti irradiati come l’uomo di Vitruvio. Dio la guardava benevolo dal fondo dell’affresco. Rimase così in silenzio per un po’, tenendo il gioco in una mano. Poi lo afferrò con entrambe e se lo collocò ancora sopra l’inguine. Eretto con orgoglio, parve incielarsi a vista d’occhio fino al cerchio del soffitto.