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Ah ma guarda, non è finita, Kos, non è finita. Soprattutto, sopra tutto, io volevo bene al tuo celibato, al tuo campo nero, dove un tempo scorrazzavano i conigli: signore, salvami.

Sicuramente, ti salverò, io ti salverò. E insieme salveremo il povero Cristo, quello che dorme sopra di noi. Su, su fino al fondo del mare, fino al nerissimo fondo scuro, eccolo!

L’ho fatto, l’ho detto, Kos, va’ sul sentiero pedonale, va’, incammìnati, e una volta arrivato alla croce vedrai le cameriere, la bici per terra, vedrai le mele ancora rotolanti in terra. Così pallidi loro, i lavoratori, così pallidi. Koos…? Kos?… dove sei finito? Kos! dove sei finito?

Volevo girare a sinistra e invece… eccomi di qui davanti al tuo petto, tutta sola nel silenzio della notte, un terremoto. Di fronte alla rosa un tempo scendeva benedetta la cascata e i bambini venivano per la doccia, uno per uno col loro camicino attraversavano il piccolo vallo del re. Tempestivamente venivano i bambini accanto a me, la testa sulle ginocchia, a piangere. Ma su, su, sono io la vostra mamma, sono io.

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Nevicava nevicava, io facevo l’infermiera per necessità, era la mia necessità. C’erano aghi dappertutto, cosa potevo farci io, che cosa? E il drappo si spezzò, e il volto si spezzò, e tutto divenne pallido. Il piccolo coniglio nero s’infilò sotto la mano, fu così che la terra intiepidì. E, si, sarà così per sempre, Kos, mi devi credere, beato l’universo tutto, si, beato.  

In fondo è semplice, è semplice. Qui i lavoratori sono donne col grembiule nero, cosa credi, i bottoni allacciati dall’inizio alla fine, lo stato cognitivo dell’usignolo. Kos, certo, sono io l’usignolo, e tu non vuoi capire che quando ti verso la birra io lavoro, se mi metto il rossetto è per il lavoro, cosa credi, è solo per lavoro che gorgheggio così: otto, nove, dieci ore, è per il lavoro che t’aspetto in piedi. Kos, io vorrei che il mio lavoro fosse inginocchiarmi, anche senza chiesa, io vorrei una volta per tutte entrare nella grande oscurità. Voglio fare per sempre il turno di notte. Voglio andare alla fabbrica, Kos, io non so di cosa si tratta, non so… Ma tu ti vedi, Kos? sempre lì con quei pacchi in mano, guarda che vien festa una volta sola, e poi perché, che senso ha puntare la sveglia per portare da mangiare al canarino, guarda che tu pedali, Kos, ma il canarino vola, vola!

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Si trattava di stare nell’acqua, con la testa fuori, con i piedi fuori. Ma come si fa, dicevo io, non è possibile vivere così. In sogno vedevo il gregge pascolante sull’altura, vedevo il cane guidatore girarsi verso di me, lacrimando mi diceva vieni. Eri tu quel cane, Kos, sono sicura, quel cane eri tu quand’eri piccolo.

Koos… Kos! ma poi com’è il tuo nome… come si scrive questo benedetto nome. Quando lavavo le bende in fondo c’era scritto il nome, solo un pezzo del nome, ma bastava… e io leggevo il libro di nascosto, piangevo di nascosto per via della storia ch’era triste, triste… la storia è triste, Kos, e ci hanno messo in mezzo, contro la nostra volontà. Ma tu ce l’hai la volontà, Koos? ce l’hai la volontà?
 
Il cielo si oscurò, la casa si oscurò, era il secolo scorso, avevo già messo le catene ai tavolini, avevo già tirato giù la claire. E all’improvviso ho dimenticato l’indirizzo: sopra la testa cadeva una foglia, sopra la testa cadeva un’altra foglia… lento veniva avanti il tram e il tipo con la fronte incollata al finestrino. Aveva un occhio solo, l’uomo con testa incollata al finestrino, viveva con un occhio solo, che miseria, Koos, che miseria. Il braccio, forse, non lo so, salutava con un braccio solo, e l’altro chi lo sa, chi lo sa…

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Guarda, se cerchi il bambino l’ho visto salire sul furgone, se lo cerchi lo trovi allo stadio, l’hanno lasciato davanti allo stadio a far che cosa non lo so, forse per la maglia con la firma, forse per il selfie lì all’ingresso. Guarda, Kos, che lo stadio è un posto di lavoro, l’ospedale è un posto di lavoro, come la tua bici del resto, inutile che fai la vittima, vorrei io lavorare all’aperto, vorrei vivere all’aperto io, eppure… Non va bene, non va bene così, Koos, e dovresti saperlo, hai studiato, hai studiato per niente, come un chiodo fuori sede, hai studiato per niente. Lo sai tu a cosa serve un bel niente? Ti hanno smantellato, hai visto? Poi dici a me che sono passiva, Kos, così io sarei passiva… E insisti, insisti, è il tuo carattere, mi dici, è la tua natura.

Tutti quegli anni seduto a scuola e non sei neanche capace di farti il pane. Devi comprartelo il pane, ma perché dico io, non ce l’hai uno straccio di forno a casa tua? Tu ce l’hai una casa tua? La residenza?

La residenza si oscura, anche il bosco si oscura, il buio cala sereno sui colpevoli nel bosco e giù in pianura gli uccelli, gli orsi, le zecche e tutte quelle oche starnazzanti, beate, si, beate. Voi lupi, voi volpi, voi conigli come vivete voi? Come vivete? 

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E su di noi passava il fiume, e su di noi passava il secolo… noi entravamo con le scarpe in mano, gesù che buio! Tu mi dicevi, questo è il mio spirito – io ti dicevo avanti, lascia stare, apri questa porta, andiamo, non c’è altro da fare, non c’è altro. Così siamo saliti, su per il monte. Più veloce Kos, più veloce. Un anno, due anni, un altro secolo, cosa vuoi che sia, Kos, più avanti, più avanti… finché un bel giorno, all’improvviso…

E perché non hai messo il grembiule, perché non hai firmato il foglietto, fai sempre di testa tua. La testa non è più tua, è mia la tua testa, hai capito? Non pettinarti più! E perchè perchè ti sei accorciata il turno, perché ti sei allungata la gonna, non fare scherzi, da domani le scarpe da tennis le metti al tennis, devi alzarti di sette centimetri almeno, sei piccola.

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