Milano è una prostituta antica con le braccia spalancate. Accoglie, redime, soddisfa chiunque. Milano non ha una personalità propria, la sua specialità è di possederle tutte e di offrire un intenso, evanescente piacere, corrispettivo dialogico esatto delle perversioni di ognuno – questa è la vulgata.
Milano costa e più soldi le dai più lei si fa bella, però non si innamora mai, anche se sembra giurare di sì per come ti guarda, per quel che racconta, per quel che promette. Alla fine è lei che ti fotte, quasi mai è il contrario. Il bello, comunque, è che si sa. Lo sanno tutti, caro signore, fin dall’inizio. Eppure, caro signore, fin dall’inizio ci cadono tutti: ancora e ancora, fra le sue braccia subdolamente amorevoli, braccia un po’ materne e un po’ amanti.           
Oppure no: Milano reagente di tutte le trasformazioni, Milano terreno di coltura, Milano efficiente; Milano catalizzatore delle intenzioni della gente, Milano humus, Milano substrato; Milano fiancheggiatrice inesausta di ogni ambizione, parte integrante di ogni sogno e progetto, Milano piattaforma, Milano rampa di lancio, propulsore.
O ancora no. Milano niente di tutto questo: Milano normalissima, come tutte le altre. Milano deprecabile, eccellente operazione di marketing. Milano prodotto da laboratorio. Milano che s’è cucita addosso un abito fiorito, sgargiante, di ventilate possibilità, di magnifiche sorti e progressive, ma che sotto sotto è come tutte le altre. Milano che se effettivamente funziona da incubatrice, fucina e terra promessa è solo perché la gente ci crede. Milano che se alla gente fosse fatto di credere che le stesse possibilità stanno di casa a Grosseto, Cristo! Gambe in spalla, tutti a Grosseto.   
Ma allora è ovvio, finanche banale, e d’altronde è sempre così: non si tratta della città, ma di chi ci abita. Già, ma chi abita a Milano? Ebbene, caro signore, è presto detto. A Milano ci abitano tutti, ma proprio tutti tutti: tranne i milanesi. Milano, vale a dire, è popolata da tutti coloro che incessantemente scorrono verso Grosseto, attirati dalla corrente, risucchiati dal gorgo famelico delle favole e del marketing. 

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È improvvisa – nella tavola calda dietro l’ufficio, in pausa pranzo, mentre osservo la città fuori dai vetri e guardo la gente mangiare – la sicurezza. Milano mi sfugge. Stabilire legami profondi con gli abitanti che costituiscono il tessuto sociale di questa città, ancora, dopo quattro anni, è particolarmente difficile. È come scalare una montagna quando per tutta la vita hai percorso unicamente sentieri. Non sai dove mettere le mani, dove appigliarti e diciamolo pure, non di rado ti prende la paura agghiacciante di precipitare. Quando s’impossessano di te questi pensieri essenzialmente ti sfugge anche il motivo per cui lo stai facendo. Che ci faccio qui in bilico, attaccato coi piedi, le mani e coi denti a questa dannata parete? Cosa diavolo ci sarà mai, là in cima? E ci arriverò mai, prima o poi, là in cima? E ne vale la pena? Ma soprattutto: chi me lo fa fare?        
           
Sarà l’umore particolare, il clima di questa città – lo diceva Aristotele – a influire sul carattere delle persone. Pare proprio, infatti, che tutti ci si ritrovi in un attimo inspiegabilmente rivestiti di una strana, seconda natura. Non che il milanese cosiddetto d’adozione – specie d’ultraorganismo espanso, concrezione di singoli individui – sia un essere indifferente, presuntuoso o incapace di empatia. Tutt’altro. L’inenarrabile coagulo di etnie, di provenienze e di ascendenze che lo compongono lo rendono de facto un grande diaframma emotivo, complesso, reattivo, sensibilissimo alle minime variazioni della temperie generale, fra sistemi, e particolare, fra singoli individui.
Generalmente il milanese d’adozione ha buon occhio quando si tratta di giudicare i suoi simili e di disporsi verso di loro di conseguenza. È una macchina sofisticata, il milanese d’adozione. Percepisce oscillazioni, micromovimenti, le singole alterazioni che attraversano il brulicante ecosistema in cui lui stesso è immerso. No, il difetto del milanese d’adozione è un altro. È l’incostanza l’ombra oscura che lo assilla. Quella sgradevole sensazione che, come un temporale a stento intravisto all’orizzonte, fa presentire troppo in fretta la noia che sopraggiunge nei riguardi di una persona o per lo stato particolare di una situazione. Per la verità si tratta di un male diffuso; tragicamente, gran parte del nostro piccolo mondo del duemila ne è affetto. Qui si parla di Milano, ma chiunque distingua in queste parole l’eco di qualcosa di familiare, che risuona allo stesso modo anche altrove, può ben persuadersi che non sia un caso.     

L’incostanza ha in qualche modo a che fare col tempo. È un ritmo. E chi non si applica con una certa scienza alla ricerca di un’incostanza armonica – ossimoro solo apparente – e ci si applica invece soltanto chi ritiene che si tratti di un buon ritmo o dell’unico ritmo – vive in questo mondo come un battello ubriaco. Oppure saltellando fra gli scogli, rischiando ogni momento di finire in acqua.        
L’acqua, gli scogli, Rimbaud. Il mare è una buona metafora dell’incostanza. L’incostante mare, diceva Omero, e i suoi alterni flutti. Per non parlare di Bauman; di mezzo, pare, c’è sempre l’acqua. Potranno sembrare associazioni ridicole, eppure basta affinare un poco l’udito per non smettere più di captare queste luminose, segrete assonanze, che sono come l’eco, al buio, di uno concerto di dita che schioccano: riflessi che trapassano le epoche e ci comunicano che sì, in fin dei conti gli umani sono sempre gli stessi.

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In un certo senso, rivoltando la storia dell’evoluzione, si potrebbe dire che dagli albori della specie l’umanità non abbia fatto altro che andare alla deriva. Nati stretti intorno a un fuoco, nelle caverne, nel cuore della vita sociale, sviluppandoci ci siamo allontanati sempre di più. Gli studiosi per la verità dicono il contrario: in principio era il nomadismo – di certo non il verbo. E poi l’agricoltura, la grande rivoluzione, sì, l’ammaestramento della terra. E allora da lì, a cascata, sarebbero sgorgate la vita stanziale e la formazione dei nuclei familiari, prima più piccoli, poi sempre più estesi, e così, in migliaia e migliaia di anni sarebbero nate le società. E sarà pur vero; ma mentre ci stringevamo fra di noi, mentre creavamo spalla a spalla i nostri grandiosi formicai, in realtà ci stavamo allontanando. L’universo, dicono, si espande continuamente, e così forse anche noi, allora, come i corpi celesti risentiamo dell’energia oscura che ci disperde. Le società saranno anche nate come dicono gli studiosi, ma la loro formazione ha prodotto anche il loro contrario: più il mondo stabilisce connessioni, più noi ci avviciniamo – anche e non solo fisicamente – più tra le persone si mette distanza: una glaciale distanza in espansione. Che poi questa distanza assuma la forma di un telefono, di un quartiere o di un muro è secondario, fa parte della pratica, sottoprodotto trascurabile della teoria.  

Di per sé, senza gli uomini e le donne che la abitano, una città, prendiamo Milano, non è altro che un bizzarro guscio cavo, incrostato di architetture più o meno preziose o decadenti, scolpito di pieni e di vuoti, di rilievi, di grandi arterie inanimate. Senza gli uomini e le donne che la abitano, facciamo uno sforzo d’immaginazione, Milano è un paesaggio naturale come una foresta o la barriera corallina. Da una parte i movimenti geologici hanno fatto prorompere le Ande grandiose dalla terra, da un’altra, con minor clamore, hanno sgrossato i tetti di Montmartre e sputato le stalagmiti del duomo di Milano. Che poi uno qualsiasi di questi luoghi fosse scoperto da una popolazione errante o che all’ombra delle sue torri si sviluppasse una civiltà, sforzatevi, è cosa lecita. 

Se è vero che l’ambiente condiziona lo sviluppo delle specie che lo abitano, sembra proprio che i milanesi d’adozione abbiano sviluppato l’incostanza come strategia per sopravvivere nel loro habitat. Tutto molto primitivo, in effetti; per fortuna abbiamo fatto anche qualche passo avanti, e la cosa naturalmente non manca di riempirci di orgoglio. Fieri ignoranti, andiamo dicendo di non essere semplici animali, e che ci siamo sollevati al di sopra delle leggi che vincolano tutte le altre specie a strisciare sulla terra. Nello specifico abbiamo imparato a modificare l’ambiente che ci circonda, scuotendo il giogo dell’adattamento forzato. Trionfo! Adesso è l’ambiente a dover fare i conti con noi, e non il contrario. È l’ambiente che deve adattarsi. Strano capovolgimento. Ci tramuteremo in fiumi? Metteremo le foglie? La parola antropocene aleggia minacciosa nell’aria. Agli alberi spunteranno le gambe?

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Per modificare lo spazio intorno a noi ci affidiamo principalmente a due risorse che mancano a quasi tutti gli altri animali: un cervello più sviluppato – il vero risultato dell’evoluzione è che mentre i pesci per respirare sott’acqua hanno sviluppato le branchie e gli uccelli le ali per nuotare nel cielo noi abbiamo inventato il boccaglio e gli aerei – e poi una cosina carnosa, schifosa, tanto insignificante quanto essenziale: il pollice opponibile.       
Nel 1600, ai tempi dei primissimi insediamenti olandesi sulla penisola di Manhattan, Nuova Amsterdam era circondata da vastissime paludi, alimentate dalle acque del fiume Hudson. Oggi nello stesso luogo sorge New York, che a tutto somiglia, metafore a parte, meno che a una palude. Il Chrysler Building, in definitiva, sta lì dove sta perché abbiamo inventato il boccaglio e perché possiamo fare OK con il pollice.    
           
Ma c’è un problema. Se le branchie dei pesci sono indispensabili per la vita sott’acqua, se le cose cioè non potevano andare diversamente – non sono i pesci, d’altronde, ad aver inventato il boccaglio, o no? – lo sviluppo dell’incostanza umana, invece, non era altrettanto indispensabile. Non si tratta cioè di una necessità evolutiva, ma del frutto di una concezione distorta del tempo.        

Nulla esiste che non diventi improvvisamente prezioso nel momento in cui minacciano di sottrarcelo. E poiché l’assedio che oggi subisce è ineguagliato, il nostro tempo non è mai stato così prezioso. Considerare l’incostanza come necessità evolutiva dunque è un errore. Essa non è altro che l’atteggiamento fallimentare che abbiamo prodotto nel tentativo di contrastare la noia, unica reale materia costitutiva di tutte le epoche, compresa, assurdamente, anche la nostra; e più profondamente – sempre la noia – finestra spalancata sulle macerie della nostra interiorità, su quei luoghi disastrati e ostili in cui non vorremmo mai e poi mai mettere piede.         

Il grande errore, il grande orrore dunque è la velleità di debellare la noia, che equivale, per paura, alla volontà kamikaze di non guardarci più dentro, costi quel che costi. E la città più perfetta dello stivale, in questo senso, è proprio Milano: caos muto che intorno a noi mette il deserto, sregolatezza assoluta dei sensi e gigantesco rimbombo che demolisce la possibilità di quella finestra. Milano, con virtù annesse, è il confortevole nulla prodotto dal troppo rumore, e il bosco del cuore è l’unica alternativa.

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