Fuori è un notturno turchino, infinito, ma senza il silenzio: siete voi che l’avete portato via. Siamo felici, urlate. Siamo finalmente rinati, ripetete guardandovi negli occhi. E noi qui, ad ascoltarvi. Cri cri cri, fa molto caldo anche se è inverno.

“Che te ne pare?”, gli chiede lei mentre estrae dal forno una teglia di pane alla curcuma e semi di girasole. Indossa un kimono orientale lungo fino ai piedi, i capelli spettinati e qualche anello tra le dita. Lascia lo sportello del forno semiaperto, il vapore sale nella stanza insieme all’odore giallo della curcuma, che fa così bene alla pressione della Signora. Lo stampo in argilla chamotte è Suo.

“Perfetto”, le risponde lui dandole un bacio. Sta sudando, si sfila dalla testa il maglione natalizio fatto da sua madre con la lana vergine del Lagorai e torna verso l’orto a scegliere le più belle foglie di cavolo nero. Devono essere larghe, bitorzolute ma non troppo. Ai piedi ha delle infradito un po’ vecchie, mentre cammina friniscono come molte altre cose in questa villa sull’Argentario. Cri cri cri, taglia una decina di foglie da friggere come antipasto. Cri cri cri, torna in cucina e le fa riposare sul tavolo rustico in ciliegio e marmo bianco.

Lavinia mannelli,scrittrici italiane contemporanee,giovani scrittrici italiane

È il primo inverno che passate qui. Vi preparate a festeggiarlo parlando dell’anno appena trascorso come di una grande guerra ormai vinta. Come se qualcuno di voi sapesse che cosa significa. Preparate la tavola del salone grande nascondendola sotto una tovaglia di lino puro italiano: l’avete trovata nell’armadio all’ingresso, quello dei tessuti antichi della Signora. Avete scelto quella più grande, perché vi piace l’effetto scenografico delle zampe di legno massello completamente nascoste dalla tela grezza. Era anche quella che profumava di più, riposta con più amore nella carta velina della collezione Tavola di Tessitura Toscana Telerie. Solo che il colore non era troppo natalizio, malva chiaro, così lei ha preso un pennarello nero e ci ha disegnato sopra degli alberi stilizzati. 

“Molto meglio” ha commentato allontanandosene di qualche passo.

Cri cri cri ha risposto lui.

“Ma ti ricordi com’era prima?” fa lei. Le tintinnano tra gli anelli le posate con la punta di corno di bue.

“Prima quando?”, risponde lui sistemando piatti scompagnati.

Da qualche tempo lei parla con entusiasmo solo dell’orto, del lievito madre, delle visua dei suoi tiktok: vanno sempre molto bene quelli in cui impasta il pane con i semi di zucca, di chia, di lino e di mille altre piccole cose dai nomi goffi. Vuole provare a guadagnarci qualcosa. Lui ha iniziato a fare yoga in mutande sul terrazzo di fronte al mare. Ha coperto la ringhiera prima ancora di ridipingerla, non ci ha passato nemmeno l’antiruggine. Ci ha messo solo un paio di stuoie di bamboo annerite dal mare: le ha prese da un chiringuito di una spiaggia sommersa da un’alluvione, poco distante da lì, e ha pensato che fossero perfette. Dice che adesso vuole solo equilibrio nella vita, che l’università lo ha fatto impazzire, il dottorato ha dovuto mollarlo prima di discutere la tesi per non litigare con il suo professore.

“Dai. Prima!

“Non capisco, ti giuro”. 

Così, per fare come i tedeschi che abitano la periferia sud-ovest di Monaco, che si intorpidiscono quasi tutto l’anno nelle villette ricoperte da venti centimetri di neve ma il fine settimana fanno sempre una scampagnata fuori casa (parole vostre), qualche mese fa con gli ultimi risparmi avete comprato un camper usato. L’avete riempito dei libri e dei vestiti sottovuoto che avete accumulato per anni (molte delle vostre cose però le avete messe su Vinted, perché credete nell’economia circolare). Avete radunato le scarpe per andare in montagna, la gramolatrice della nonna di lei, il vasetto di pasta madre ereditato da una zia e siete venuti qui, nella casa di proprietà di lui. Avete pensato che la Signora vi avrebbe accolti a braccia aperte.

“Sei ancora in fase di negazione, non ti fa bene”

“Dici?”, le dà un pizzicotto sul mento e cri cri cri, qualcuno sta salendo le scale dall’appartamento del piano terra. Lei diventa subito nervosa, lui inizia a stirare un sorriso. 

“Pensi che le piacerà?”, chiede all’ultimo al fidanzato indicando la tavola imbandita. 

“Come ogni altra cosa che fai.”

“No, sul serio.”

“Perché me lo chiedi? Sai già la risposta.”

Cri cri cri, “Ciao mamma”, e le stampa un bacio sulle guance.  

A tavola vi mostrate spensierati. Vi regalate orecchini, libri, buoni per una singola entrata alla spa e un paio di minuti di massaggi termali. Una bottiglia di rum alla cannella, l’avete comprato al supermercato ma non importa, è il pensiero che conta. Un osso nuovo per il cane che abbaia in continuazione. Bevete acqua, birra e vino bianco tutti assorti, tracannate ogni cosa dalle coppe per champagne in cristallo Baccarat gettando a ogni sorso la testa all’indietro; fate battute, ridete, odiate. Quando lui porta a tavola il panettone ripieno di torta gelato, lei inizia a tagliarlo con un minuscolo coltello di plastica usa e getta e la Signora ha uno sguardo che solo io capisco: per tutti gli altri è come se fosse opaco, d’un vetro durissimo. Sono mesi che segue lei, la nuora, mentre si muove senza grazia tra le Sue antiche tovaglie pregiate, i centrini, le posate per le grandi occasioni e i posacenere rubati agli alberghi; la vede cambiare disposizioni ai mobili e ai soprammobili, alle candele, ai cuscini, spostare le tende, lavarle, stendere i panni, fare spazio, buttare via, comprare, pulire, e si sente decisamente felice. La Signora se lo ripete spesso, lo dice al figlio ogni volta che può, e anche stavolta non perde l’occasione. Anche se la fidanzata del figlio la schizza con una goccia di gelato, lei non si scompone.

“Oh, quanto sono felice!”. 

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Lui controlla che la madre non si sia fatta niente e poi, sempre ridendo, prende il coltello dalle mani della fidanzata: inizia a tagliare a cubetti piccoli piccoli perché, dice, meglio un po’ di fantasia. Io vorrei morire, sprofondare e nascondermi nella mia poltrona nell’angolo della sala, ma la Signora è inspiegabilmente d’accordo, ride insieme al figlio. Si pulisce gli angoli della bocca con un tovagliolo di batista spaiato e ripete: “Proprio felice!”. 

Mi calmo anche io, mi rassegno, vi ascolto.

Fuori è un notturno turchino, infinito. C’è molto vento ma è caldo, come se venisse dal punto più profondo della terra. Le chiome ubriache di platani e pini, cedri del Libano e cipressi argentati, si abbracciano col cielo e sibilano parole in lingue sconosciute, tortuose, segrete. Non passa giorno senza che osservi le piccole stelle qua sopra inondare le finestre a cui ora vi affacciate, le terrazze che da poche settimane avete rivestito di piante facili da accudire, gradevoli da fotografare. (Es. In astronomia, Cratere, o Coppa, piccola costellazione a sud dello Zodiaco, tra l’Idra e il Corvo). Con questa mia voce che è lo sfiatatoio dei pensieri del mondo, che è il pendolo dell’umore della mia Padrona, sono stata spesso sul punto di mollare tutto e abbandonarvi al vostro destino. Non l’ho mai fatto. Mi chiedevo che cosa avrei spiato, una volta rimasta da sola. 

Quando la Signora si è trasferita qui, per me è stato molto facile capire che sarebbe stata la nostra tomba. Mi sono infilata in uno dei suoi scatoloni e non me ne sono mai andata: non avevo alcun bisogno di un maschio, e nemmeno lei. Abbiamo comprato ogni cosa che deve essere comprata in una casa per bene, sistemato i mobili giusti, cucito e rattoppato con il giusto onorabile decoro. Quello che non è stato facile, invece, è stato decidere di accogliervi qualche mese fa, è bene che lo sappiate. Ma voi lo sapete già. Lei, almeno, lo sa già. 

Osservo la Signora per ritrovare il mio centro, ma la Signora è muta. La cena è finita, tutti gli altri se ne sono già andati. La Signora no, rimane fino all’ultimo perché sa quanto può essere impegnativo dare una cena di Natale come si deve: vi darà una mano coi piatti, e poi tornerà al pianterreno. 

Le sembra che la pancia di lei sia più grande di ieri. La misura di giorno in giorno attraverso la mano di lui che vi si posa con quella goffa delicatezza che gli conosce così bene, anche lei (cosa crede?). Sotto gli occhiali li guarda spesso a lungo, a lungo, a lungo. 

“Sono proprio felice di avervi qui a casa”, commenta la scena. 

“Oggi ha scalciato per la prima volta, sai?”, dice lui alla madre. “Senti”, le dice prendendole una mano e aspettando che la fidanzata si avvicini. 

Lei si scosta prima il kimono lungo sui fianchi, che aperto così mostra una ragnatela di insetti, forse libellule ricamati in oro (sembra che volino, sospesi o forse incatramati nel velluto nero della sua schiena). Poi fa qualche passo verso di loro e si ferma un po’ distante dalla sedia della Signora. La Signora si alza. La Signora allunga la mano. La Signora strizza gli occhi così forte che scende qualche lacrima.

“Sono lacrime di gioia!”, commenta a voce alta con tenacia.

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Io non mi tengo più bene in piedi, non riesco a vederla soffrire. Pensavo di essere più pronta, pensavo che non avrei mai visto il figlio della Signora ereditare le Sue, le nostre cose. Fa caldo, fa così caldo che ormai vibro in ogni stagione, ma non è facile. Ho le ali tutte intorpidite, suono, rimbombo, ma il mio ballo non è più quello di una volta, o anche solo di questa estate. O forse ho perso il conto del tempo che passa, forse è ancora luglio e loro sono solo in visita alla futura nonna. Un ultimo singhiozzo della mia Signora e scivolerò dalla mia poltrona di vimini. 

“E poi abbiamo scelto il nome”. Cri cri cri, si avvicina alla fidanzata.

“Non è vero, non ancora. Abbiamo solo una short list”, precisa lei. “L’hanno votata anche i nostri followers”.

“Come secondo nome c’è anche Lina”.

“Come mi chiamava il babbo!”.

“Come ti chiamava il nonno”.

“Come secondo nome però. Il primo per me sarebbe…”.

“Oh, come mi rendete felice!”.

Io sono già a terra prima che finisca la frase. Faccio un minuscolo rumore sordo, senza eco, non mi ero immaginata di morire così, scivolando tra le Sue lacrime di gioia. Non fa male, il pavimento è solo più freddo del previsto.

“Toh, una cicala”. Cra.

“Che schifo!”, urla la Signora.

“Sicuro? A me sembra una puzzola”.

“Ma no, non lo vedi? Ha tutte queste striature verdastre…”.

“E poi non puzza, hai ragione”.

“Forse un grillo?”

“Schifo, schifo!”, ripete la mia Signora.

“Ma no, dev’essere una cicala, non ha le zampotte per saltare”.

“A dicembre?”, chiedono le libellule dorate avvicinandosi. Ed è l’ultima cosa che vedo distintamente.

“Un tempo non era così”.

“Buttala fuori!”.

“Cerca con quell’App che ti sei scaricato”.

“Forse non è ancora morta”.

“Forse possiamo salvarla”.

“Fuori, fuori da casa mia!”. 

Cra cra, lui mi scatta una foto, dopo il flash non vedo più niente da nessuno dei miei occhi, non sento più niente dalle mie antenne.

“Qui dice che è una Magicicada, un genere di cicale diffuse nel Nord America con un ciclo vitale di 13 e 17 anni”.

“E come ha fatto ad arrivare qui? Fa’ vedere”.

“Se non la fate sparire mi metto a urlare!”.

“Va bene, mamma, abbiamo capito, prendo la scopa”. Il suo solito cri cri cri si allontana nel tempo e nello spazio.

“Prima c’erano solo d’estate”, dice la Signora appena rimane da sola con quel kimono così cheap e appariscente: non deve piacerle molto.

Prima quando?”, risponde la nuora fingendo un sorriso. 

La Signora ci pensa un po’, poi risponde: “Mah, e chi ci capisce più niente”.