È quasi agosto, un caldo torrido, si sfiorano i quaranta. In città però c’è più gente, rispetto agli anni passati. La crisi, le crisi degli ultimi tempi hanno svuotato le tasche di tutti, e anche i più ardimentosi si sono ritrovati prosciugate le scorte di coraggio: in tanti quest’anno rimarranno in città.  
Prima delle diciassette nessuno che non abbia impegni inderogabili si avventura per le strade. Qualcuno per la verità ci vive, per strada. Altri invece semplicemente non riescono a stare in casa. Solo questi due tipi di diavoli sfiniti e infaticabili si trovano in giro in questi giorni. Gli altri, chissà, persone infinitamente ordinarie, qui e ora non ci interessano minimamente.          
Il nostro protagonista è un giovane, ventitré anni suonati, vive solo. Oggi, come il giorno prima e quello precedente, esce dopo pranzo, computer in spalla. È uno di quei diavoli che a stare in casa proprio non ci riescono, ma una casa comunque ce l’ha. A nord di Milano per la precisione, a NoLo: North of Loreto – giuro su Dio. Oppure no? Precotto nel frattempo non è forse diventata SOS, South of Sesto? No, mayday, per il Signore. Precotto per il momento è solo Precotto, quartiere dal nome bizzarro al confine con la periferia nord della città, popolato per lo più da vecchi meridionali, pugliesi, principalmente, e da asiatici. Il nostro protagonista su questo punto non se la sente di essere più specifico: cinesi giapponesi coreani filippini non saprebbe dirlo, non li distingue. Ok, forse un filippino da un cinese sì. Ma ha importanza? Certo che ce l’ha. Ma solo in generale. Non ora, non qui.    
Il nostro giovane vive in un vecchio monolocale ristrutturato di proprietà dei suoi nonni, pugliesi pure loro, per l’appunto, emigrati a Milano anni e anni fa, chissà quando, prima della guerra, oppure appena dopo, il nostro giovane non se lo ricorda. Anche questo, tra l’altro, se ci pensate, non ha importanza. Quante cose, qui e ora, non hanno importanza, eppure ce l’hanno eccome, in generale, altrove? Poco male. I nonni del giovane ormai sono morti da qualche anno (quattro) e lui vive da solo in questo piccolo appartamento e non paga l’affitto, sommo privilegio. Vagamente, si sente in colpa.          

È quasi agosto, dicevamo, e lui pensa solo a scrivere. E al sesso. Bisogna dirla tutta in merito. E allora insomma, diciamolo: è quasi agosto e lui pensa solo a scrivere e a scopare. Niente di strano, dopotutto. Al sesso, con diversa intensità e varia frequenza ci pensano tutti, donne uomini animali compresi – come sempre decadono, davanti alle questioni veramente importanti, le barriere interspecie. E per quello che riguarda lo scrivere? Sciagura, è praticamente lo stesso: ormai ci pensano in troppi, pure gli animali, si direbbe. E vedi sopra, ci pensano con varia frequenza e intensità. Perché tutto, d’altronde, ma proprio tutto tutto si gioca lì, sulla frequenza e sull’intensità. Vince chi ci pensa più forte e più a lungo – principio, questo, valido in quasi tutte le competizioni per la vita. Ad ogni modo sono più quelli che scrivono, da sempre, di quelli che scopano. Ne discende, naturaliter, che se la gente scopasse di più e scrivesse di meno leggeremmo tutti roba migliore. E sarebbe davvero un mondo migliore. Dico se la gente scopasse di più.       
Il nostro protagonista, comunque, non può dirsi deluso dalle sue prestazioni in entrambi i campi. Scopa abbastanza, con intensità e frequenza alterne, e scrive abbastanza. Scrive e corregge, fa sesso e sparisce. C’è forse una correlazione, fra questi due momenti? Probabilmente no. È solo la pallida assonanza, solo quella, bugiarda, che suggerisce una connessione. Non sarebbe male, però, se ci fosse una sorta di entanglement quantistico, fra le due cose. Suonerebbe come una giustificazione. O un destino. Il destino è una giustificazione? L’ombra ambigua e poco convincente della metafisica destinale tedesca è proprio dietro l’angolo, nel suo cervello.           
Il nostro giovane, comunque, ripete a se stesso e agli amici che vuole soltanto scrivere e innamorarsi: (disperato) voglio soltanto scrivere e innamorarmi! E siamo alle solite – qui l’assonanza è concettuale, più che altro, e produce il suono glorioso come di un senso, dietro tutto quanto – scrivere e innamorarsi: innamorarsi che è come scrivere, scrivere che è come innamorarsi, e così via. E invece no. Mi sento come una principessa della Disney o una dodicenne, ribadisce a se stesso e agli amici. (Disperato): voglio soltanto scrivere e innamorarmi! Ma ogni donna che finisce nel suo letto… insomma, non era quella giusta. Quella giusta? Ma che vuol dire poi, quella giusta? Così alla fine lascia perdere. Corregge, cancella, va avanti.     
Scrivere è diverso, però. Passa notti intere, il nostro giovane, a volte anche dieci, dodici ore filate seduto sulla sedia in cucina davanti al computer, a fumare e a scrivere. Parecchio deleterio, in vero, per la salute, in molti modi. Racconti per riviste, un cervellotico roman à clef, saggi narrativi – che non lo sono sempre, narrativi, i saggi dico, quelli belli almeno? – a volte poesie, ma più spesso racconti. In più corregge bozze, edita, legge manoscritti per un piccolo editore di Pavia con cui collabora. È severo il giusto. Non gli sembra di esserlo eccessivamente, solo il giusto. E anche se ogni manoscritto che passa per le sue mani si carica di segni rossi, commenti e, invariabilmente, via via che corregge, i segni rossi si riducono come se non valesse più la pena lavorare, per converso i commenti sarcastici ai lati delle pagine si moltiplicano.         

È dura, così (voce di nonno): «Tirare a campare». Lo sa bene lui. Recentemente però, tira la cinghia oggi tira domani, ha scovato l’alimento – via, chiamiamolo alimento – più economico di tutto il supermercato dietro casa: ceci e fagioli in scatola targati Don Gerardo, trentanove centesimi la lattina grande. Soffrisse di favismo, il nostro giovane, sarebbe bello che spacciato. Don Gerardo a colazione pranzo e cena, ultimamente. Vivaddio, il nostro non soffre di favismo, epperò va da sé: ora lo affligge un meteorismo da capodoglio. Sfiata come uno stramaledetto treno a vapore sovietico scassato. Praticamente si è trasformato in un cetaceo.         
Per fortuna è un tipo metodico. Proprio così, una volta si sarebbe detto metodico. Oggi invece lo chiamerebbero ossessivo compulsivo, o patologico. O scrittore. E mica perché è pazzo davvero, no, per carità; è solo che col tempo, a martellate, ha forgiato uno schema-recinto d’acciaio in cui sopravvivere. Tutto qui! Con che coraggio, dargli del pazzo? Più o meno Efesto picchia così: sveglia presto, colazione, due ore di scrittura. Allenarsi in casa, altre due ore. Poi doccia pranzo leggere intanto. Dopo pranzo computer, lavorare, in casa o all’aperto, attaccare a bere durante. Avanti tutta fino alle venti, poi rincasare, cenare, scrivere ancora, bere durante. Alla fine crollare a letto, leggere, o almeno provare, più spesso dormire: irrimediabilmente ubriaco. Gli orari possono variare, ma di poco. E il giorno dopo ricominciare daccapo. È pazzo, uno così, secondo voi? Ovviamente no. (Disperato): voglio soltanto scrivere e innamorarmi! Ma i pochi soldi che racimola vanno praticamente tutti a finire nelle tasche del suddetto, benedetto Don Gerardo, e in quelle sconosciute e senza fondo in cui versa tutti i soldi che si beve. È vita, questa, secondo voi? Certo che sì. Ma d’altronde non ha importanza, qui e ora. C’è gente, invece, che una casa nemmeno ce l’ha. Dico altrove, in generale. Se ci pensate.