In Guerra e Pace Tolstoj parlando di Napoleone scrive che un essere umano vive due vite: una personale, su cui esercita il controllo e che è tanto più libera quanto più sono astratti i suoi interessi, e una collettiva, la vita-sciame, su cui crede di avere il controllo ma che in realtà vive trasportato da un movimento più grande e implacabile: la Storia.

Così potrebbe accadere una festa, certo, passo per caso proprio all’intervallo di un’importante prova generale di un’opera alla Scala, entro e nessuno mi ferma, nel foyer mi mettono in mano dello champagne e lo bevo, ne trovo un altro e lo bevo. Intercetto un mio giovane amico regista che mi dice che siamo stati invitati alla festa che si terrà dopo la generale, non conosciamo ancora l’indirizzo, sappiamo solo che si terrà in un appartamento, ma mio marito, che del teatro ha fatto il suo mestiere ed è dentro a vivere il suo destino storico, probabilmente ancora nel suo palchetto in attesa che lo spettacolo ricominci, mi scriverà un messaggio in cui mi darà tutte le informazioni. Va bene, allora prendo il tram 1 e torno a casa, ero uscita sperando che un noto agente letterario decidesse di rappresentarmi, ma il libro che ho scritto è impubblicabile, così dice l’agente e probabilmente ha ragione. Mio marito lo ha letto tre volte come un condannato a morte. Tutti gli amici a cui ho chiesto un parere sono scomparsi. La mia missione è fallita. Però sono stata invitata a una festa, molto meglio, nell’incertezza del domani eccolo che arriva: un piacere semplice e immediato.

Ma devo correre a cambiarmi, mutare pelle. Di fretta. Chissà dove sarà la festa e io devo essere pronta. Mi dico che se è troppo lontana da casa non vado anche se invece so benissimo che andrò. Non sono io che decido, è la mia patologia. La paura di perdersi qualcosa, the fear of missing out. Devo andare dall’analista, penso, o uscire subito dai social. Sono ancora sul tram quando decido di cancellare tutte le app dei social dal mio smartphone, so bene che le reinstallerò molto presto ma lo faccio comunque, è bello il brivido del controllo. Nella mia vita il controllo è solo un brivido generato dall’illusione.

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Potrebbe essere tutto una festa, camminare, ridere tra sé e sé e fumare, avere il potere di decidere, restare sull’1 o scendere, vivere a Milano o altrove. Tutto dovrebbe essere una festa, penso, e poi mi dico che sono superficiale e penso a Julien Gracq o a Proust. Penso che vorrei solo tornare a casa, sdraiarmi a letto e rileggere Le temps retrouvé, ma anche che la festa potrebbe rivelarsi un ballo di maschere proprio come nell’ultimo volume della Recherche. Le circostanze mi fanno apparire ancora più colpevole se penso a T. S. Eliot e ai Four Quartets, o alle poesie di Hölderlin. Me ne devo andare, penso, devo tornare a vivere in campagna, vedere le persone importanti invecchiare. Voglio vedere cambiare le stagioni, vivere in silenzio, tradurre Virgilio e Omero, tradurre le Lettrines di Gracq, leggere Proust e non pensare a nient’altro.

Arrivo a casa, mi siedo in bagno e fumo. Apro immobiliare.it ma non so bene cosa sto cercando, allora apro SkyScanner e cerco dei voli per Barcellona anche se so che non ho alcuna intenzione di superare la paura di volare. Sento che inizia sotterraneo il mal di schiena, e poi penso che ce lo mando da solo mio marito alla festa, è il suo mondo, il suo lavoro, se la veda lui. Ma poi lui mi chiama: non ci crederai mai, la festa è a due civici da casa nostra. Incredibile, quando capita a Milano? Fingo di non aver voglia di andare, ma lui mi dice: guarda che ci sono i tuoi amici, sono tutti lì. E allora scendo. Davanti il civico lui scende dal taxi e mi fa – Mari, è all’undicesimo piano, non vorrai mica…?

Ma io voglio, non ho alcuna intenzione di morire nel cazzo di ascensore dei nostri vicini di civico. Prendilo tu piuttosto, se te la senti, a tuo rischio e pericolo. Io piano piano faccio le scale così ho il tempo di pensare ad altre scale del passato e rinsaldare la materia labile dei ricordi. Cucirla e disfarla, come Penelope la sua tela. L’ascensore è molto lento e vecchio e io arrivo su prima di lui, ancora non conosco quasi nessuno ma mi sento a casa. Sono nata per questo, penso. Tutte le sere della mia vita dovrebbero essere così, io che parlo, bevo e fumo sigarette con persone sconosciute. L’appartamento è perfetto, proprio come dovrebbe essere un appartamento dove si tiene una festa, c’è anche un ampio terrazzo da cui si vede Milano. 

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Sul terrazzo mi raggiunge un mio amico attore che mi porta un gin tonic. Grazie, proprio quello che volevo, gli dico, mentre al tavolo seduta di fronte a noi una scenografa ci parla di un lavoro che sta seguendo a Hollywood. Che figata, dico, e lo penso, anche se so che a Hollywood mi potrebbe venire l’Everest degli attacchi di panico della mia vita. Non ti preoccupare, mi dico, pensa a Kant che se n’è stato tutta la vita a Könisberg e da Könisberg ha cambiato per sempre la storia del pensiero occidentale. Non devo farmi incantare da Hollywood: sapere aude.

Mi alzo e cerco un bicchiere di vino, ma sono finiti i bicchieri, allora vado in cucina, prendo una tazza e ci verso dentro del vino. Lo bevo seduta al tavolo della sala con il mio giovane amico regista, intorno la gente balla, invece noi parliamo. Un attore si avvicina e mi chiede se sto bevendo un canarino, ma io non so cosa sia un “canarino”, allora lui mi prende in giro e io indispettita mi alzo e me ne vado. Entro nel bagno padronale, il mio amico mi segue, passa in quel momento mio marito e vedendoci in bagno entra anche lui – perché siamo lì? Non lo sappiamo. Iniziamo a ridere. Non riusciamo a smettere di ridere perché non ha molto senso passare la serata in bagno ma da quel bagno non riusciamo più a uscire. La porta resta aperta e chi ci vede nel bagno entra pensando che stia succedendo qualcosa anche se non sta succedendo niente. Non riusciamo a smettere di ridere.

Un’invitata si fa largo tra la folla che ormai riempie il bagno, riesce a raggiungere la doccia, prende il braccio della doccia e lo apre sulla testa degli invitati. Non si riesce più a uscire dal bagno, letteralmente. C’è fila nel corridoio. Tutti vogliono entrare perché pensano che stia succedendo qualcosa anche se non sta succedendo niente. Io, mio marito e il mio amico non riusciamo a smettere di ridere. Vorrei rimanere sempre qui in questo bagno, penso, e lo dico anche ai miei compagni. Dove vive la festa e la città prende vita, e il telefono è chissà dove, e non ci sono dubbi, né desideri al di fuori di quelli del presente e l’animo brucia e prende forma oltre la cortina del tempo. Ma da quel bagno invece esco e devo uscire, da quel bagno dobbiamo uscire tutti, dobbiamo andare nel mondo dove le cose succedono, e quando scendiamo le scale quasi all’alba con il volto slavato, soli come testimoni prima di entrare in tribunale, mi accorgo che l’attore di prima è lì, sul marciapiede, mi sta aspettando solo per dirmi che il canarino non è il popolare uccello da gabbia, o almeno non solo, non è quello che intendeva lui, ma un infuso di acqua calda e limone, si prende quando si ha il mal di stomaco, è il classico rimedio della nonna, si chiama canarino solo per il colore, te lo volevo dire, e poi se ne va, scompare nella voragine dove il contemporaneo sta collassando, trascinato dalla storia.

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