All’inizio della sua avventura come direttrice artistica delle collezioni donna del brand globale Dior, Maria Grazia Chiuri ha scelto una forte connotazione femminista. Siamo nel settembre del 2016 e su una T-shirt bianca campeggia a caratteri bold la scritta “We Should All Be Feminists”: un messaggio che diventa immediatamente virale. Uno slogan, uno statement che riprende il titolo di un fortunato saggio della scrittrice, attivista femminista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Chiara Ferragni è una delle prime a diffondere il messaggio indossando per la sua platea di follower la T-shirt in edizione limitata, venduta al costo di 620 euro. Starlette, celebrities, influencer e curatrici del mondo dell’arte contribuiscono ad amplificare l’hype. Una domanda sorge spontanea: marketing o impegno? Nel nostro tempo svuotato e iperindividualista, sospeso tra reale e rappresentazione digitale, grande attenzione viene posta su quella che comunemente definiamo “politica dell’identità”. Questa dimensione, questo territorio ibrido confonde due aspetti che di solito non stanno insieme: l’identità, che è profondamente intima, e la politica, che tradizionalmente è una questione generale, pubblica. Come si inserisce la moda in questo contesto?

La moda ha sempre la capacità di creare una dimensione ambigua, e attraverso gli abiti prova, nella sua versione più creativa, a dare vita a nuovi immaginari. Se gli abiti occupano lo spazio liminare tra l’intimità di un individuo e la sua rappresentazione nella società, diventa interessante vedere come la moda sia intrecciata all’identità così come alla politica. La moda è un’industria culturale tanto quanto il cinema o le serie televisive: rivela l’ossessione delle società liberali per l’identità nella sua forma più estrema, l’individualismo. Il suo obiettivo principale è attrarre consumatori con grandi disponibilità di spesa piuttosto che persone consapevoli, pensanti. Si apre la questione di un mainstream

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