Inafferrabile, frivola, distaccata, la moda è anche viscosa, ubiqua, ha un potenziale altamente pervasivo. Per questa ragione va affrontata con le pinze: perché è un linguaggio, un’industria, una molteplicità di immaginari che richiedono attenzione e, forse, una tensione culturale che va oltre il business, il denaro. Spesso, viene liquidata come qualcosa di superfluo. Quando pensiamo alla moda vediamo un universo popolato da brand, da identity da difendere e riaffermare, fashion designer da osannare, coolness da condividere. Un’industria, uno show, un business. Ma la moda è solo questo? O ha una sua capacità critica? Personalmente credo che sia uno dei linguaggi della contemporaneità che più lascia emergere complessità e contraddizioni del nostro tempo.

Nel 2015 ho incontrato il filosofo inglese Timothy Morton per un’intervista, e tra le tante rivelazioni sono stato colpito da una sua dichiarazione che più o meno suonava così: «Non credo a quello che afferma la filosofia moderna, ovvero che siamo esseri simili a Pac-Man che si mangiano l’universo. Penso che siamo camaleonti super sensibili e che possiamo assumere il colore di altre cose». Ecco, credo che la moda possa contribuire a renderci questo, esseri sensibili, mimetici, camaleonti pronti e aperti alla variazione, all’ignoto e forse all’azzardo. Per questo sono attratto dalle ricerche, proposte, visioni di due fashion designer: Matty Bovan e Charles Jeffrey.

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