Quella notte sono stato sparato dall’obice di mio padre assieme ad altri cinquanta milioni di consimili – dritto nel mistero della fertilità.
Stavo quasi per cacciarmi in un rivoletto pre orgasmico, ho nuotato fino allo stremo per risalire l’onda.
È stato qui che ho conosciuto Armando, mio fratello.
«Vado bene per l’ovocita?».
«Non mi stressare».
Armando era uno spermatozoo robusto, se avesse avuto l’addome sarebbe stato scolpito di addominali. Trasportava informazioni genetiche ad alto contenuto atletico. Dove io flagellavo in maniera un po’ spastica, da principiante privo di senso del ritmo, lui esibiva una tecnica esemplare, certi allunghi in cui la furia agonistica era sottomessa alla precisione dello stile. Aveva tutta l’aria del predestinato. Mettendomi nella sua scia mi sono portato alla testa dell’onda. Ogni tanto buttavo un’occhiata indietro e pensavo: «Eccoci qua, cinque millilitri di seme battagliero, alla conquista della mortalità». Avrei potuto arringare la moltitudine alle mie spalle col discorso di San Crispino — noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli.
Ma quanto stronzeggio, alle volte.

Mia madre aveva un utero sproporzionato, un vaso in cui si celebravano primitive, ataviche lunghezze: abbiamo faticato per quasi due ore fra i canali e tutto il resto, prima di riuscire a inzepparci nella tuba. Fermo con lo sguardo sul flagello di Armando, cercavo d’ignorare le grida dei poveracci rimasti intrappolati nel muco cervicale. E mentre risalivo l’arcana tenebra di quel luogo mi domandavo se tutto ciò che mi circondava fosse reale, o se non ero precipitato in una qualche metafora che ancora non riuscivo a comprendere. Forse l’utero e quell’oscurità spugnosa erano un simbolo. Ma il simbolo di che?
L’eterna tentazione dell’ascesa?
La legge-morale-fuori-di-me?
Teorizzavo un iperutero affollato di idee perfette, con un demiurgo maldestro che impacchettava la flora batterica.
«Armando… chi siamo?».
«Eh?».
«Da dove veniamo? Dove andiamo?».
«Nuota, cretino! Siamo quasi alle tube.»
Occorre dire che invidiavo la noncurante ottusità di Armando,

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