Hai conosciuto Richard quando L’informazione di Martin Amis è stato pubblicato in Italia, cioè nel periodo in cui avevi appena finito di finire il tuo primo racconto. Dopo anni di inizi di racconti guastati dalla velleità di scrivere il miglior incipit di sempre, e dunque destinati alla non vita non morte nelle cartelle limbiche del tuo hard disk, sei riuscito a mettere insieme un testo che ricuce un paio di episodi vagamente autobiografici in qualcosa di simile al copriletto a maglia della nonna, che si vede che è fatto con pezze di provenienza disparata ma che, insomma, visto da abbastanza lontano appare come un insieme coerente. Hai mandato il racconto a una rivista di narrativa, che lo ha pubblicato. In seguito hai conosciuto la redazione. È gente della tua età, e tutti hanno letto L’informazione, non si parla d’altro. È un romanzo che parte alla grande, commenti, ma poi la trama va a farsi benedire. La trama, la trama, ribatte il fondatore della rivista. E che te ne fai della trama quando hai un personaggio come Richard Tull?

Il ritratto di Richard a quarant’anni: romanziere in disarmo, sposato, due figli, due romanzi: il primo, Premeditazione, accolto con un paio di indecifrabili recensioni, il secondo, I sogni non significano niente, nato morto. Impegnato nella stesura del terzo, intitolato Senza titolo,ròso dall’invidia per il suo amico Gwyn Barry che ha appena pubblicato un libercolo che gli ha dato la celebrità, e soprattutto assorbito dal tentativo involuto e cervellotico quanto la sua prosa di modernista fuori tempo massimo di provocarne la rovina. Cosa mai poteva andare storto?

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Quando siamo diventati amici, Richard era appena stato sbattuto fuori di casa da sua moglie Gina e io avevo appena pubblicato il mio primo corposo romanzo con una grande casa editrice di Milano che lo aveva accettato sulla base di trenta pagine scritte e di una esposizione orale del seguito della trama. Sembrava amore a prima vista ma, ripensandoci, nei mesi che seguirono qualcosa avrebbe dovuto insospettirmi. Per esempio quando in un ufficio del palazzone editoriale, mentre ormai la luce del pomeriggio declinava, un redattore rialzando il capo dal malloppo delle bozze aveva sospirato: Eh, certo che questo è proprio un romanzo letterario.

Quanto ci avevamo riso sopra io e Richard quella sera stessa, tra un bicchiere di Talisker e una canna. Letterario? E che altro avrebbe dovuto essere? Richard ci pensò un po’ su e sentenziò: Non venderà un cazzo, ma almeno avrà buone recensioni.

Lo sbattei fuori di casa. Obiettò che non aveva un posto dove andare. Me ne frego, dissi, trovati un altro scrittore.

Del resto, Richard aveva torto. Il corposo romanzo fu accolto da un coro di silenzi. Il silenzio epigrammatico. Il silenzio impressionista. Il silenzio didascalico. Il silenzio narcisista. Il silenzio analitico. Il silenzio entusiasta.

Soffrii per una settimana, poi telefonai alla casa editrice. Mi dissero che l’intero ufficio stampa era in ospedale. Il giorno stesso della pubblicazione l’ascensore sul quale si trovavano aveva spezzato il cavo d’arresto ed era precipitato per sei piani. 

E Daniele, il responsabile della collana? Salvo, ma in riunione.

La sera stessa chiamai Richard e gli dissi che, se non aveva un altro narratore italiano commercialmente irrilevante da cui stare, avrebbe potuto dormire nella mia auto. Non reagì bene. Per chi l’avevo preso, per un poveraccio? Si trovava da dio tra gli scrittori italiani, si era fatto molti amici e per fare nottata l’unico problema era l’imbarazzo della scelta.

La mattina telefonai a Milano e chiesi di Daniele: era in riunione. Nei giorni successivi scoprii che nel palazzone facevano riunioni mattina, pomeriggio e sera. Una vita d’inferno. Gli scrissi una mail sommessa e gli sussurrai due messaggi in segreteria. Si stava avvicinando la primavera, e con la primavera il Salone del libro, e non avevo una presentazione fissata. L’ufficio stampa era ancora in terapia intensiva. Come sempre in quella stagione Torino entrò in una fase di instabilità depressionaria: sin dal mattino, mentre il calore iniziava a montare dall’asfalto, in cielo correvano nuvole nere che nel corso del pomeriggio andavano a incastrarsi alla perfezione componendo un soffitto di una cupezza opprimente ma incapace di produrre una sola goccia di pioggia. Vivevo in quel bagno turco in bermuda e infradito, con il telefono nella mano fradicia, scorrendo in continuazione le notifiche dei messaggi e compilando elenchi di scrittori cui avrei potuto chiedere una recensione, o almeno un consiglio. Ogni ora controllavo Amazon e se il libro era passato, mettiamo, dal 32.133mo posto della Narrativa Letteraria al 13.275mo, postavo felice l’annuncio su Facebook. Grazie, lettori, vi amo tutti. Uno per uno, che faceva uno. Su Anobii ancora non se ne parlava ma una persona ce l’aveva in lettura. All’ufficio postale, dove mi recavo ogni giorno, le impiegate mi strizzavano l’occhio con tenerezza maliziosa e materna e mi permettevano di depositare i miei pieghi di libri indirizzati a potenziali recensori saltando la coda. Mia moglie, invece, mi disapprovava con tutta l’autorità derivante dal fatto che l’avevo tacitamente incaricata del mio mantenimento durante la fase transitoria della costruzione della mia carriera di narratore italiano. Un giorno, subito dopo colazione, mi costrinse a radermi e a vestirmi e mi spinse fuori di casa. Andai a farmi tagliare i capelli, e quando mi rimirai nello specchio mi sentii subito una persona migliore. Ero pur sempre uno scrittore che aveva appena pubblicato il suo primo corposo romanzo con un editore di prestigio. Il sole era alto nel cielo e io ero pronto per un giro nelle librerie del centro. Il libro c’era. Esisteva. Oh, non in vetrina, ma sui tavolini su cui si accatastavano le novità italiane faceva la sua figura. Pile da cinque copie. Pile da due copie. Alla Fnac ne avevano ordinate venti. Benedetti francesi! Preso dall’entusiasmo mi presentai e mi offrii di firmare le diciannove copie rimanenti. Il commesso, colto alla sprovvista o neoassunto, acconsentì e mi passò un pennarello. Stavo autografando l’ultimo esemplare quando il telefono vibrò sulla mia coscia trasmettendo un tremolìo galvanico a tutto il corpo. Era una mail di Daniele di cui ricordo solo una frase: “Forse dovremmo prenderci una pausa di riflessione”. Mi dava comunque appuntamento al Salone, il venerdì pomeriggio, allo stand della grande casa editrice milanese. In allegato c’era un pass.

Al Salone andavo il meno possibile. Soffrivo di agorafobia e di un disturbo da ansia sociale diagnosticato. Appena riemerso dalla metropolitana vidi le code alle biglietterie snodarsi sotto la pioggia battente e ingoiai il primo Xanax. Ma quali code e code, pensai, sono il fresco autore di un corposo romanzo. Mi diressi verso l’ingresso dei professionali. Arrivato allo sportello, mostrai lo smartphone. L’allegato non ne volle sapere di aprirsi. Il mio nome non risultava in alcuna lista. Provai a chiamare Daniele, ma il telefono squillò a vuoto. Capitava, in quella bolgia. Presi il secondo Xanax e mi unii alla fila volgare. Bagnato fradicio, ribollivo di umiliazione. Varcare la soglia del Padiglione 1 privo del badge dei professionali avrebbe certificato la mia appartenenza alla base della piramide alimentare editoriale: non ero neppure un pesce piccolo, neppure un mollusco: ero il plancton. Mi lasciai portare dal moto ondoso della folla, sganciai i soldi. Ero dentro. Andai dritto al megastand dei milanesi e chiesi di Daniele. Era qui un attimo fa. Chi l’ha visto? Torna subito, tu aspetta qui. Girellai tra gli scaffali delle novità di narrativa italiana. Il corposo romanzo non c’era. Fermai una standista. Forse era finito fuori posto. Percorsi gli scaffali della narrativa straniera, i technothriller, i fantasy, il giardinaggio, le guide turistiche, gli economici e i manuali di self help. Affrontai la via crucis a quattromila stazioni dei noir. Mi venne il torcicollo. Chiesi alla standista, che mi disse che per avere una risposta avrebbe dovuto cercare il magazziniere. Il magazziniere si mise a cercare lo spedizioniere. E Daniele? Era in riunione.

La testa mi girava, il sudore mi scorreva a rivoli dalle ascelle lungo i fianchi; barcollai arraffando grandi boccate d’aria equatoriale e mi ritrovai fuori dallo stand, dove una figura mi soccorse.

Era Richard, in camicia bianca, gilet a disegni cachemire e papillon, con una Ceres in ogni mano.

Ma guarda come sei ridotto, disse. Sei disidratato. E me ne porse una, che scolai d’un fiato. Gli presi anche l’altra e la finii in due sorsi.

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Cosa sia accaduto dopo, del resto del pomeriggio e della serata, non lo ricordi. È un effetto ben noto e talvolta apprezzato della collaborazione tra alcol e benzodiazepine. Ma i tratti della scena successiva sono nitidi, sebbene manchi ogni reminiscenza riguardo al come e al perché tu sia arrivato lì. Sei alla festa annuale di minimum fax. C’è Richard accanto a te, e di nuovo gente in fila, ma stavolta siete in un vasto salone immersi in una musica che assorda e che però ti piace perché ti fa pensare a una ragazza dai capelli blu. Tutti davanti e dietro di voi si muovono a ritmo. La coda danzante è diretta a un bancone da bar, Richard è assetato e ti spinge in avanti dove le teste a tempo fanno su e giù, tutte tranne una. Immobile. È come se tu scattassi una foto. È Daniele. Ha un occhio pesto e un braccio al collo. E quello che ti stupisce non è solo trovarlo lì, ma la sua espressione sconvolta dal terrore, il grido di aiuto! aiuto! che sovrasta la musica mentre fa cenni convulsi nella vostra direzione – ma chi sta indicando: te o Richard?

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Da molto tempo avresti voluto scrivere di Richard Tull, ma ti è sempre mancata l’occasione, o almeno questo è quanto ti sei ripetuto per anni passando davanti agli scaffali britannici; in realtà tiravi dritto temendone la presenza – vana precauzione, non bastava certo lo scaffale a confinarlo, il suo spettro si è aggirato per tutti questi anni in ogni stanza della casa, soprattutto la notte, e sempre hai avuto paura di trovartelo accanto in vestaglia puzzolente di whisky e fumo nelle tue puntate antelucane verso il frigorifero, beata ingenuità, ma solo chi manca di immaginazione non popola di fantasmi gli angoli bui e non è il tuo caso, sei uno scrittore dopotutto: un narratore italiano commercialmente irrilevante: dunque, ficcatelo in testa, non hai alcuna possibilità di sfuggirgli perché lui è dentro di te, il meglio che tu possa fare è fartelo amico. 

Oh Richard, mon semblablemon frère, guarda cosa mi è arrivato oggi per posta, un rendiconto del mio editore.

Almeno ce l’hai, un editore. 

Sì, ed è pure misericordioso, non me ne spediva uno da anni.  

Perché non li fai mandare al tuo agente? Ci penserà lui a filtrare quella merda. 

La mia agente è andata in pensione.

Raggiunti limiti di età? 

Di sopportazione.

Sulla soglia si è affacciata tua moglie. È assonnata e si sta guardando intorno.

Che ci fai alzato?

Niente, rispondi, soltanto un sogno triste.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Nessun narratore italiano commercialmente irrilevante è stato maltrattato durante la stesura del presente testo.