Ho cominciato a spogliarmi perché mi sentivo sola. Avevo un fidanzato ma usciva tutte le sere ed ero sempre più sola. Andava al bar, così diceva. A volte tornava ubriaco sempre puzzava di fumo. Una mattina gli vidi quei lividi ventose sul collo, non dissi nulla, mentre provava a inventarsi un’acrobazia da parkour in salotto. Chissà chi era, una ragazzina, se non aveva ancora imparato a evitarli. Anche io lo avevo tradito. La prima volta in macchina la seconda in ascensore la terza in hotel, la quarta pure in hotel ma un altro anche se sempre con la stessa persona, la quinta era stata definitiva o meglio non eravamo già più insieme. Ma con gli uomini non mi spogliavo, preferivo tenere su un indumento. Con la scusa che Barthes ha detto che in Sade è così ed è cosà (ha a che vedere con la proibizione, più che con l’immaginazione, ma a me piace pensare che attivi il desiderio meglio della carne putrescente). Era da sola che mi spogliavo. Lo facevo per Tito, me lo aveva chiesto lui, la prima volta. Mi aveva inviato foto di modelle, senza aggiungere altro. Ci avevo provato, ma con le luci sbagliate e lo sfondo tugurio era un’imitazione pessima, quel po’ che non pudicamente coprivo, un millimetro di capezzolo un tot di coscia quanto basta di culo non era funzionale (a cosa, poi). Provai anche coi video, che facevano meno carne all’etto e però lui voleva gli scatti, dovevo restare immobile. Mi piace essere guardata ma da nessuno in particolare. Mi piace che uno sguardo sconosciuto si goda in piena autonomia de lonh il corpo filtro paris che copre le imperfezioni più vistose. Ne esistono altri ma meno naturali. La prima volta che ho ricevuto un commento osceno me ne sono compiaciuta come quando i ragazzini alle medie ci toccavano il culo in palestra o per le scale. Il galateo prevede che il maschio le salga per primo, che stani i pericoli, noi ragazzine di proposito scattavamo in avanti. Poi ho capito che non volevo nessun commento. Il mio corpo era esposto ma per me. Perché era il corpo che avrei voluto. Ho sempre della musica in ear quando cammino per strada. Non ho mai fatto sesso con nessuno che tac azionasse uno stereo e via al ralenti come in Justify my love o I want your sex di George Michael. Il maschio pensa solo al cazzo a dove ficcartelo. Mettiti così e mettiti cosà.  E vuole che tu gli dica bello, al suo cazzo e chissà perché nessun uomo riesce a realizzare quanto faccia viceversa schifo tutta quella carne rammassata e pencolante. E quei peli ascellari e quel tanfo di piedi. Un uomo ti bacia dopo la caponata dopo il pesce dopo la carbonara dopo il sigaro dopo la cocacola bacia e rutta. Piscia senza chiudere la porta, sporca il water e non pulisce. Adesso non hai più trent’anni, adesso devi censire le esternazioni, tolleranza minima, possibilità a scartamento ridotto. E tutte queste ragazzine concorrenziali che subiscono i richiami pavloviani, che li esercitano, anche, ma che subiscono, di più. Nessuna ragazzina ha mai potuto credere di non essere l’unica e di non dover essere l’ultima. Tradisce sua moglie perché non te, dico a Ilde, che si vanta. In realtà frigna ma si sta vantando. Del cazzo giusto che l’ha fatta godere. Ma perché, che ha di diverso da tutti gli altri cazzi al mondo, queste ossessioni frogologiste, da ranocchi che deflorano principesse, questa mania bina e speculare, masturbazione infinita.

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Ma dicevamo della nudità forclusa. Il maschio non se ne vergogna, snida appendici ipotoniche ventrali e bassoventrali, squaderna culi malnettati, srotola lingue piccanti, nel migliore dei casi. Li guardo dimenarsi in affanno ai primi due colpi, avrebbero, mi domando, dovuto allenarsi di più leggere meno libri andare meno in terapia e più all’in effetti parkour? Le ragazze invece sempre pronte per l’accoppiamento si sono spese tutte le paghette di sugar daddy in depilazione laser, baffetto ascelle inguine sopracciglia (per poi tatuarsele di lì a seguire) sempre truccate come negli studi di canale 5, una volta c’ero stata anche io, negli studi di canale 5, mi truccavano accanto a Samantha de Grenet che era soprattutto alta e io mi domandavo mentre le componevano i ricci coll’Ur-Dyson ma le puzzano i piedi, a Samantha de Grenet, quando si toglie le scarpe? Le donne hanno le calze di nylon e questi tessuti che a contatto con la pelle fetono inesorabili. Come fanno a snudarsi con questa consapevolezza? Quando guardo un corpo, maschile o femminile che sia, non ho mai un immediato pensiero sessuale ma eminentemente olfattivo. Che odore, e quanto. Forse la colpa è di Carlo. Carlo era orfano come poi a mia volta sarei diventata. Carlo una volta mi disse qualcosa indicandomi la bocca, qui fiatella, disse, se la memoria non m’inganna. Se avesse tirato un destro sulla ceffa avrei patito meno pena. Passai il resto della serata muta, cercando di ricostruire cosa avessi mangiato a pranzo. Decisi per la strada più semplice, non mangiare più. Ma anche la fame è fetente, ti imbianca la lingua, fa aumentare la bilirubina se non sei già Gilbert di tuo. Dopo poco puzzi comunque. Il corpo è secco, i nervi tesi, le vene marcite dagli aghi. Conviene riprendere a mangiare ma stai attentissima a non infilarti in bocca niente che odori mentre il maschio di fronte si ingozza di trippa, porchetta, polpette, tiramisù, carbonara, tutto unto e grosso, come nella sequenza in cui Trevisan e la Cescon erano al ristorante e lei ordinava un’insalata. Trevisan è morto. Una volta eravamo vicini e io lo guardavo e non pensavo all’odore ma agli occhi, aveva solo occhi. Da morto un odore l’avrà avuto ma non lo posso sapere e non posso sapere nemmeno quello di mio padre, che non ho visto morire. Certi hanno passione per quei rantoli, te li raccontano à bout de souffle. Io no. Il corpo mi piace fermo, seducente perché incapace di emanare. Non mi muovo da qui, ha detto un contatto virtuale. I contatti virtuali sono quelli che preferisco ma non devono mai diventare reali, mai odorare. L’altro video lo mandai a Ruben. Era ossessionato dal mio culo, glielo mostravo senza indumento alcuno in barba a Sade e Barthes, tanto non li capiva, carne al banco e in non richiesto contraccambio foto del cazzo (dick picture in quel gergo che mutua dal porno l’imprinting merceologico-elencatorio) e poi scriveva come se n’era venuto (sexting), mentre io cancellavo per scongiurare l’immaginato maleodore, come lo chiamava l’altro, diventato famoso con un libro zozzo. Scrivo cose zozze anche io ma non divento famosa. Piuttosto un personaggio chiacchierato, dice Bizio. C’è sempre del gossip, attorno al tuo nome.

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Sono anni che ripenso all’episodio primario. Non è l’infanzia ma la crescita, il seno, le tette e soprattutto il culo, sì, quello che ossessiona Ruben. Sono in gita sto guardando un quadro. Caldo, una folata. Non ho avuto schifo, non ho provato imbarazzo o sdegno, ma tutto quel caldo. Non ho mai visto la faccia. Non aveva consistenza né nome meno che mai odore. Era solo caldo. Tito ha detto che vuole frustarmi: perché questo bisogno di sfogarsi, scaricare energie in esubero, martirizzanti. Penso spesso al bambino G., preso a calci dal patrigno. Lividi, chissà quanti, coperti dalla pomata. È morto di botte, di calci. È morto ma lui, che ha poco più di vent’anni e ha sfogato il troppo di vigore su un bambino che a stento sa leggere, poi gli mette la pomata, sperando che la furia scappata dalla letterale mano ne sia lenita (c’è scritto così, lenitiva). Cos’ha detto al farmacista. Tra un po’ lo interrano, ma nel frattempo una bella spalmata di Voltaren. La violenza dritta, senza pause. Poi si ferma, però quando. Quando non ha più fiato: lui, perché l’altro è esanime da un pezzo. Che scena è, questa. Come si fa a pensarci senza una repulsione che eccita? Ha detto così, Tito, tu provi attrazione e repulsione per la violenza. Io? Ma dove si è verificato? Quando l’ho svelato, eiettato? Marco ha detto che sui social non posso mostrare i capezzoli perché mi bannano. Tito invece ha detto macché ti bannano, ma quando mai, non ammazzi nessuno, fallo. I capezzoli li ho mostrati al senologo, muoveva le mani in senso rotatorio come quando si preparava l’acqua per la doccia in epoca premiscelatore. Mi chiede di posizionargli le mani sulle spalle, abbassa gli occhi. Me lo figuro come uno di quei medici di cui potresti venire a sapere che hanno molestato tot pazienti, la mano ha indugiato, qual è il confine tra l’auscultazione e il palpeggio, quale pressione sancisce lo sconcio, fissa per decreto il luridume. Le ho scritto il mio numero sotto il referto, è l’unico momento in cui parla. Ha i capelli rossi, sarà cattivo come nella novella. Non mi chiede niente di me, vuol solo sapere in itinere quanti anni ho. Non ho ancora letto il referto, passate settimane. Potrebbe aver scritto che è iniziato il countdown che ho i giorni segnati. È più urgente tenere a distanza la tentazione di farne un romanzetto, era capitato con un altro, dopo svenimento da terapia, che mi avesse portata a pranzo e avesse poi continuato a inviare messaggi, fino a successiva preda. Manco i medici sfuggono alla regola dell’accumulo, che vale per tutti i maschi. Le femmine tendono a selezionare, ma il maschio dopo la riproduzione, garantita la discendenza, continua a seminare a vuoto, pura coazione. Escono di furia dalla trappola che pulsa perché hanno paura della fertilità, di una prole fuori controllo cui non hanno selezionato i tratti, le skill orgoglio di genetica e patrimonio. Mi ha dato un turbamento, la palpazione diagnostica. Mesi che non mi abbrancavano mani di maschio. L’afrore della pelle sudata, mia, sua, non so, non ricordo. Ma era tutta avvolta da una nebbiolina, la stanza, come l’anticamera di una sauna. Ho chiesto del bagno, aspettandomi di esservi accompagnata. Chiusa la porta, altro film. Non so il nome, perché è scritto sotto il referto, che non ho letto. L’odore del disinfettante, il sesso che parte asettico, pulito. Mi sono spogliata a metà, stavolta con Barthes. Su i pantaloni e il seno esposto, bianco, piallato dalla postura supina, capezzoli dritti dopo la stimolazione, pelle umida per il gel dell’ecosonda. Ha allungato un pezzo di carta senza parlare, la nebbiolina si è fatta elettrica, come succede a volte le mani si sono sfiorate con una scossa.

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