Nel confuso racconto della sua emigrazione dalla Macedonia del Nord, Isak, operaio cinquantenne di etnia albanese e di religione islamica, ha attribuito alla inimicizia tra albanesi e slavi le ragioni della propria partenza, insieme alla povertà, provocata dalla corruzione dei governanti: odio interetnico, politica e miseria come fossero tutt’uno, un groviglio che gli rendeva impossibile la vita a Kumanovo, città macedone al confine con la Serbia, nella quale è nato. Seduto, con le braccia muscolose conserte e le gambe accavallate di fianco, in un angolo della sala prove dell’azienda metalmeccanica in cui lavora da anni, ha spiegato – attento a capire le richieste (con il volto lungo, dai segni profondi, aggrottato, nella luce velata di una finestra dai vetri opachi), ma in modo disordinato per l’emozione – le condizioni del proprio distacco da una regione impoverita, in cui un tempo c’erano una fonderia, un tomaificio, un maglificio, che impiegavano migliaia di operai in un flusso continuo di turnisti, autobus pieni e uomini e donne che andavano e venivano come in un film – un’attività lavorativa industriale così vivace, che, nel ricordarla, l’operaio ripensava al passato come a un sogno, ammirato per il dinamismo produttivo di un paese in cui poi non c’era stato più nulla: scelte politiche sciagurate avevano costretto la popolazione a vivere dei margini sempre più ridotti del lavoro di campi faticosi da coltivare e di prodotti difficili da esportare per il gran numero di dazi e i rapporti conflittuali con le nazioni vicine; la disoccupazione dilagava. Per questo in tanti avevano lasciato quella terra. E certamente aveva pesato su tutto la preponderanza della popolazione macedone sulla minoranza albanese, che, pure, dopo la guerra in Kosovo era cresciuta di numero per l’arrivo di migliaia di profughi, arrivo che aveva aggravato la condizione di povertà e acuito le ragioni economiche e politiche del conflitto: c’era stata la guerra civile, c’erano stati dei morti, e poi ancora scontri, proprio a Kumanovo, che ha un nome di poetica risonanza, ma è una città straziata dall’odio.

Giulia Corsalini,Un uomo forte,scrittrici italiani contemporanee
© Kael Alford / Getty Images

Isak vive ormai da quindici anni in un paesino delle Marche molto pacifico, un piccolo borgo di ottomila anime dal centro storico medievale ben conservato, fermo nel tempo, un cono di case in muratura e chiese dai campanili alti, con una piccola propaggine di costruzioni nuove a ridosso della montagna, ville e villini a schiera, e più in basso un quartiere popolare di palazzoni colorati e aiuole fiorite, dove abita anche il gruppo dei macedoni – quattro, cinque famiglie variamente legate da parentela – in un minuscolo giardino, la moglie di Isak (la moglie sconosciuta, invisibile), ha sistemato su un carretto, messo lì a scopo ornamentale, dei vasi di fiori. Una località, questa dove vive Isak, che avrebbe tratti idilliaci, se non fosse che qualche anno fa un terremoto l’ha colpita pesantemente, come una fenditura nella storia di un abitato in cui persistenza, deterioramento e ristrutturazione degli edifici avevano lo stesso tempo lento, pacato e ripetitivo di nascite, vicissitudini quotidiane e morti degli abitanti.  In ogni caso, come tanti suoi connazionali, Isak ha scelto un luogo defilato, non le grandi città che accolgono altri gruppi etnici, e si è impiegato come operaio in un’azienda metalmeccanica che gli permette di mantenere la famiglia e mettere da parte dei risparmi, con i quali progetta di costruirsi una casa a Kumanovo, dove, tuttavia, non intende tornare, perché in Italia ha uno stipendio dignitoso e quando c’è il lavoro, dice, c’è armonia. Inoltre, integra i guadagni con alcune ore di straordinario, non troppe, perché lo aspetta a casa un figlio adolescente affetto da autismo, e non vuole tardare. Tuttavia, nel periodo della raccolta delle olive, insieme al fratello, un uomo flaccido, apparentemente tardo e inutilmente scaltro, dedica un fine settimana alle nostre piante; lavoriamo e pranziamo insieme all’aperto in umide giornate ottobrine. Isak lavora duro. Alto e distinto, nella sua tuta blu da operaio, maneggia per ore lo scuotitore pesante spingendolo tra i rami degli ulivi sparsi sulla collina, in zone scoscese, in cui è faticoso anche sostare; se si interrompe è per rispondere al figlio che lo chiama al telefono. E quando già tutti gli altri hanno lasciato le loro postazioni, lavora ancora, fino a sera, infaticabile, tendendo le braccia verso la pianta, sullo sfondo dei tramonti sfibrati che vanno a sostituire a fine ottobre i cieli infuocati di settembre sopra Recanati, mentre il fratello gli gira attorno per le mansioni minori: stendere le reti, raccogliere da terra gli acini dispersi. Da solo, Isak fa il lavoro di tutti gli altri insieme  conoscevo un uomo di forza pari (quegli stessi muscoli lunghi, lisci, pallidi sulle braccia abbronzate), anche lui instancabile e il migliore quando raccoglievamo le olive; a differenza di Isak, in un tempo in cui molti se ne andavano, la sua terra è riuscita a trattenerlo, ora ce l’ha nel suo grembo.

Giulia Corsalini,Un uomo forte,scrittrici italiani contemporanee
© Pierre Crom / Getty Images

Ho visto in un video la città di Kumanovo, davvero un luogo senza alcuna attrattiva: piazze disadorne, larghe strade fiancheggiate da palazzine e case lontane da ogni apparenza di agio o di cura, spesso non finite o abbandonate al degrado, o cadenti, o ruderi, strade piantumate di radi alberi spogli; un grande mercato di frutta allestito in un capannone chiuso da teli verdi, con casse e cartoni e sacchi poggiati qua e là in modo disordinato; e poi ancora strade e palazzine squallide, un insieme di vecchio degradato e nuovo raffazzonato, e, solo per una breve sequenza di immagini, splendore, arte, l’interno di una chiesa ortodossa; e, ancora, già poco fuori dal centro, strade sterrate, dissestate, attraversate da mezzi agricoli, case e casupole derelitte, polvere; infine un fiume coperto di rubbish, come mostra, riprendendolo da un ponte dalla balaustra arrugginita, il giovane videoamatore cinese che si è spinto, credo in un viaggio di piacere e di scoperta, fino a quell’angolo oscuro della Macedonia del Nord, dove un brik di Ayran, bevanda a base di yogurt, costa 20 MDK, dinari macedoni, ossia 0,3 euro. Ciò che il video non riesce a includere è lo scorcio delle montagne che si alzano a sud, il territorio montuoso e frastagliato che prosegue nel paesaggio aspro, estremo, incommensurabile, ripreso dalle inquadrature a campo lungo di Honeyland: le immagini di vita vera della cinquantasettenne Hatidze Muratova, che tra i resti di un villaggio spopolato accudisce la madre malata e alleva api per la produzione di miele, miele che la donna, immersa nel pulviscolo ronzante dei suoi insetti, lascia fluire dalle lastre dei favi su larghe foglie concave, dorato e abbondante, sola fonte di guadagno, di dolcezza e di splendore (insieme al suo sguardo lucente e al giallo oro della sua camicia) in un luogo dove non arriva la corrente elettrica, né ci sono strade o fognature; e dove, per intercettare il segnale radio e ascoltare musica, Hatidze deve issare su un palo una ciotola di ferro in cui ha praticato dei fori. 

È in questi luoghi che Isak costruirà la propria casa? Dove ormai non vivono più neanche la madre, mancata prematuramente, né il padre, morto nel 2020 di Covid senza che il figlio potesse salutarlo, né seppellirlo, in un paesaggio naturale indubbiamente potente per la sua impervia e selvatica, dunque inospitale, bellezza, e in un paesaggio antropico tanto degradato e compromesso, dove gli uomini si odiano, c’è ancora un motivo di attrazione per l’emigrato che mette da parte i suoi risparmi? 

Abbiamo mostrato il video a Isak, che non tornava a Kumanovo dal 2019. In uno degli uffici della sua azienda, ha guardato scorrere sul monitor le immagini della sua città: manifestavamo di nuovo interesse per la sua terra e questo lo onorava; in piedi, ha iniziato a prestare attenzione con curiosità, poi si è animato: appoggiandosi con le braccia muscolose sul tavolo e sporgendosi verso lo schermo, ha descritto per noi ciò che vedevamo: ecco la piazza centrale della città, la fontana, il monumento ai caduti, il palazzetto del municipio; ecco la strada, in fondo alla quale c’è la sua scuola; quest’arteria, che attraversa la città, divide la zona degli albanesi, a sinistra, da quella degli slavi, a destra, lì è pericoloso anche solo affacciarsi (perché ti ammazzano); ecco il mercato, un mercato ricco, ben fornito, dove va a vendere le verdure che coltiva un suo vicino, che è stato anche suo compagno di scuola, ma per quanto Isak cerchi con gli occhi tra i commercianti non riesce a individuarlo, e intanto – ma le immagini scorrono in modo troppo rapido, Isak si avvicina, ma non vuole sedersi, si accuccia sulle ginocchia per essere all’altezza del monitor, la cui luce va a riflettersi nei suoi occhi azzurri – siamo di nuovo tra le strade della città e, mentre le case si fanno più povere (da esse si differenzia la moschea, una delle quattro, ci spiega, della zona albanese), il ragazzo si sta dirigendo proprio verso la sua strada – Isak si alza, si sporge e si china per indicarci il luogo –  in quel bivio, cui fa da spartitraffico una palazzina moderna che ospita uno studio odontoiatrico e un salone di bellezza e all’angolo si vende carne di toro nero, DEMI ZI, inizia la via dove lui abitava con la sua famiglia, la sua casa è a pochi passi e potremo vederla, ecco, ecco, ora potremo vederla; ma il videasta all’ultimo svolta a destra e la delusione di Isak è grande, ha perduto per un secondo la possibilità di rivedere e mostrarci la sua strada: per tutto il resto del tempo rinnova il suo rammarico: perché quel tizio non ha svoltato dalla parte di casa sua? mentre il viaggiatore prosegue nella zona di destra, dalla parte degli slavi, e sfilano le immagini della chiesa ortodossa con i suoi interni dorati e poi di nuovo le povere strade e le case dismesse, abbandonate (nessuno sa più nemmeno di chi sono), e ancora le strade sterrate e la polvere, e infine ecco il fiume, così sporco, per via, dice scuotendo la testa, della poca pendenza. Più oltre, dopo il fiume, ossia dove il video s’interrompe, c’è un tunnel scavato nella terra, un lungo tunnel che quarant’anni fa, mentre lui lo attraversava sfuggendo a un temporale con la sua piccola mandria di vacche (avrà avuto dieci anni?), venne inondato da un acquazzone di una violenza straordinaria, piovvero tonnellate di acqua, che trascinò via persino le case; nel tunnel ce n’erano almeno due metri: gli animali si salvarono solo perché erano di taglia grande (tornarono lentamente alla stalla), ma il mandriano bambino doveva essere già molto abile e robusto se, in quella piena d’acqua ed entro quel cunicolo senza vie di fuga, riuscì a non affogare. 

Giulia Corsalini,Un uomo forte,scrittrici italiani contemporanee
© Kael Alford / Getty Images

Isak è tornato a Kumanovo per la celebrazione del matrimonio del figlio più grande, che vive in Svizzera. Nella foto che ci ha inviato e che lo ritrae insieme agli sposi indossa una camicia celeste. Sarà perché lo sfondo è un salone bianco, la cui parete visibile è coperta per intero da candide tende di pizzo, e perché le lampade accese emanano una luce che pare, allo scatto, fluorescente, sarà perché la sposa al centro potrebbe essere scambiata per un manichino o una statua di cera in abito tipico bianco, l’immagine sembra provenire da un’infinita e artificiale lontananza. La ragazza posa rigida, tra il suocero e il giovane sposo (in camicia bianca, cravatta e gilet neri), che la tiene sottobraccio; lei ha un bouquet di rose stretto tra le mani e come appoggiato in vita, da dove muove un’ampia gonna lunga dalla struttura a campana ben sostenuta; intorno al collo alla coreana ben chiuso e sul corpetto lucente è avvolta, in diversi giri, una catena d’oro; ha un sorriso teso nel volto tondo dal mento pronunciato racchiuso nell’hijab, su cui è appuntata una coroncina e da cui discende un corto velo d’organza.  Esprimono tutti e tre, lei negli occhi scuri e ombreggiati di viola, gli uomini nello sguardo chiaro (quello di Isak risoluto, quello dello sposo fiducioso e come in cerca di approvazione), più soddisfazione che felicità.