Anno 2023, Giorgia Meloni governa l’Italia. Al suo fianco, ministri che protestano contro Peppa Pig e la Sirenetta. E tu scrivi La correzione del mondo (Einaudi), un libro sulla cancel culture?

A prima vista, in effetti, il contrasto è stridente: possibile che alle nostre latitudini – dove i rappresentanti delle istituzioni finiscono con preoccupante frequenza sulle pagine dei giornali per essersi concessi uscite apertamente razziste – ci sia bisogno di interessarsi di oscuri fenomeni politici e comunicativi d’oltreoceano? Così vuole la vulgata: la cancel culture non esiste, è una montatura della destra, non ci riguarda e non bisogna parlarne. La verità è che dovremmo occuparcene proprio perché si tratta di un terreno in larga parte espropriato dalla propaganda reazionaria, anche in Italia: Meloni e i suoi affezionati avranno sempre gioco facile nell’urlare «al lupo!» davanti all’ultimo caso ingigantito di statua rimossa dal suo piedistallo da qualche parte nel mondo; e se glielo lasciamo fare senza inquadrare meglio la questione, epurandola delle strumentalizzazioni che ce la rendono così indigeribile, vinceranno loro. Per evitare il ricorso al fastidioso nomignolo – cancel culture – e alle inevitabili reazioni un po’ pavloviane che porta con sé, un mio conoscente di sinistra aveva virato sul faceto: «Chiamiamola Pippo!». Io sono d’accordo: purché di “Pippo” si voglia parlare davvero, anche quando comporta agnizioni tormentate all’interno del campo progressista.

Come definiresti, allora, quello che sta succedendo oltreoceano? Cos’è Pippo e perché ci riguarda?

Oltreoceano stanno accadendo fenomeni diversi, non sempre assimilabili e raramente riducibili a un tweet saputello: da una parte uno scetticismo nei confronti del “mondo nuovo” non di rado sfruttato da frange di radicalismo violento, basato sulla disinformatja e su un complottismo paranoide, che talvolta arriva a condizionare le alte sfere governative; dall’altra un’intolleranza progressista, più carsica, spesso negata, che viene coccolata da élite accademiche e uffici marketing di grandi aziende ed è alimentata da una visione del mondo manichea, schiacciata sul presente e, in fondo, occidente-centrica. Problemi di ordini di gravità immediata diversi, ma che esistono – separatamente – entrambi.

Per quel che riguarda Pippo, azzarderei una definizione ragionata e scevra di distorsioni: quella tendenza popolare sulle piattaforme digitali a rivalersi in modo sproporzionato su chi esprime (o ha espresso in passato) opinioni invise a una certa interpretazione chiusa e oltranzista della nuova sensibilità occidentale. Ci riguarda perché le infosfere impazzite dei social media hanno attirato nel loro gorgo anche la nostra società – che pure di nuovamente sensibile, a prima vista, ha ben poco – portandoci a pensare allo shitstorm online come all’arma fine-di-mondo per educare la società e portarci per mano verso un mondo più giusto e inclusivo. In Italia lo abbiamo visto nel caso recente delle tre studentesse del “nihao” da asilo Mariuccia in treno, finite in un gorgo molto più grande del loro infantilismo xenofobo. Queste “rieducazioni” non migliorano il mondo, semmai è vero l’opposto: ragionare in termini di nemici algoritmici genera nuova barbarie su scala industriale, producendo un’idea della società profondamente malata, anzi proprio sociopatica.

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