A volte proviamo ad affrontare dei compiti, che molto spesso sono anche dei desideri, decisamente più grandi di noi. Per me, quel compito o, meglio, quel desiderio, è scrivere di preghiera. 

Dirsi “credente”, come io mi dico, e pregare quotidianamente, come tento di fare in modo maldestro — due anacronismi della nostra contemporaneità —, non mi assicurano la garanzia dell’esperto. Anzi, finiscono per mettere in mostra dubbi e inciampi delle mie argomentazioni. Perciò, in questo breve testo, vorrei concentrarmi sulla mia esperienza di preghiera e, più precisamente, sulle stazioni preliminari, che oggi mi sembrano necessarie per vivere quel momento di raccoglimento interiore. 

E queste stazioni sono tre gesti: scegliere un luogo, fare silenzio e cantare. A pensarci bene, e come proverò a raccontare, ciascuno di questi tre gesti potrebbe già singolarmente essere considerato “preghiera”; eppure, il solo luogo, il solo silenzio e il solo canto non riescono a offrire completamente quel sentimento tanto atteso e ricercato. È necessaria la loro compresenza per sentire qualcosa che dentro (e fuori) ci cambia. 

Per darne subito un esempio, e non risultare eccessivamente metafisico (anche se sarà difficile!), potrei evocare un episodio della vita di Francesco d’Assisi, riportato nell’ottavo capitolo della Leggenda Maggiore di Bonaventura di Bagnoregio: un episodio così affascinante che Angelo Branduardi, nella composizione del suo album francescano, L’infinitamente piccolo, ne ha fatto una canzone, Nelle paludi di Venezia Francesco si fermò per pregare e tutto tacque

Il luogo

Il santo di Assisi sta tornando dal suo viaggio a Damietta (1219), dove ha incontrato il sultano d’Egitto, al-Malik al-Kamil, e ha cercato – senza successo – di fermare una crociata. 

Adesso si trova nella laguna veneziana, insieme a un altro frate, e sente il canto di una «grandissima moltitudine di uccelli». Ne sente il canto, scrive Bonaventura e sottolineo io, e dice al suo compagno: «I fratelli uccelli stanno lodando il loro Creatore; perciò andiamo in mezzo a loro a recitare insieme le lodi del Signore e le ore canoniche». Ci sono già due aspetti interessanti da segnalare. Intanto, la coincidenza per Francesco tra canto e preghiera: la nostra preghiera, per essere tale, sembra che debba ispirarsi al canto degli uccelli, essere naturale, melodiosa, intonata, rivolta al creato e al suo creatore. Il secondo dettaglio che bisogna notare è l’occasione della scelta: Francesco sceglie di pregare in quel luogo perché è un luogo di preghiera, e quindi è un luogo sacro: lo testimoniano quel canto, e gli uccelli che si sono radunati lì e all’unisono hanno deciso di lodare. E se Francesco è riuscito a vedere quel luogo, tra tutti i punti della laguna, è proprio perché è riuscito a sentire il canto. Se fosse stato distratto, se non avesse avuto la sensibilità di riconoscere quel suono, non si sarebbe fermato. Potremmo sostenere che l’essere che prega sviluppa un orecchio al canto, e che non è mai scontato il luogo in cui decidiamo di fermarci a pregare. La preghiera non funzionadappertutto. 

Otto secoli più tardi, anche io mi sono fermato a pregare in quella laguna. Sicuramente con fede più incerta e minore intensità. Nel frattempo, gli uccelli si sono trasformati in una felicissima comunità di frati, che subito dopo il passaggio dell’Assisiate decide di costruire lì un eremo, che si chiama oggi San Francesco Del Deserto. E io l’ho trovato per caso, navigando su internet, in un periodo in cui non distinguevo alcun tipo di canto, ma sentivo di averne una profonda urgenza.

Ho scritto una e-mail al convento, come può fare chiunque. Ho raccontato la mia storia e confessato il desiderio di vivere un’esperienza di ritiro sull’isola. Sono seguite delle telefonate e dei messaggi con il frate guardiano, ed è maturata dentro di me l’impressione di essere, in qualche modo, “atteso”, sebbene fossi uno sconosciuto. Poi è giunto il momento del viaggio, che è stato come il richiamo del canto, Francesco che dice “andiamo lì a lodare”, lì e non altrove. Così arrivo alla stazione di Venezia, poi a Fondamente Nuove, poi a Burano, tra case variamente dipinte e negozi di merletti. Qui il cammino si interrompe. Non si può proseguire, l’isola non è raggiungibile con i vaporetti: devono essere i frati a prenderti. E a un certo punto lo vedi davanti a te, questo frate marinaio, su una lunga barca bianca, tutto intabarrato perché sta diluviando, che lega la cima all’approdo, ti invita a salire e ti augura pace e bene.

Quando si supera l’ingresso dell’isola, su un cartello c’è scritto: QUESTO È UN LUOGO SACRO.

Il silenzio

Il racconto di Bonaventura prosegue in modo davvero singolare. Francesco e il frate si uniscono al canto degli uccelli, al loro lodare, per recitare le ore, le preghiere rituali della giornata. Ma c’è un problema, questo unico suono è così forte che non permette né di sentire gli altri né di sentirsi. Francesco è costretto a intervenire, si rivolge direttamente agli uccelli e, deciso, li ammonisce: «Fratelli uccelli, smettete di cantare fino a quando avremo finito di recitare le lodi prescritte». Bonaventura riporta che «tacquero immediatamente».

L’Assisiate ci offre un ulteriore spunto di riflessione: la preghiera prevede un metodo. Perché quel metodo possa prendere una forma, che è una puntuale alternanza di voci e di silenzi, di letture e di raccoglimento, è necessario sentire gli altri e sentire sé stessi. Altrimenti, non funziona. Pregare, infatti, non è la somma dei nostri privati rumorii interiori. Pregare è appunto quel metodo, quel processo che trasforma i nostri canti, a poco a poco, per straordinario paradosso, in silenzio. 

Marco Marino,marco didimo marino,come si prega,l'arte della preghiera,San Francesco e la preghiera,san bonaventura,San Francesco e gli uccelli,Chiara Frugoni,San Francesco del deserto,canto e preghiera,dove si prega,come si deve pregare
Bartolomé Estebàn Murillo, “San Francesco di Assisi in estasi” circa 1646, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
© Heritage Images / Getty Image

Viene in mente, a questo proposito, e anche per complicare la nostra argomentazione, l’esperienza del sacerdote Zaccaria nel vangelo di Luca (Lc 1,5-25; 1,57-80). 

Chi è Zaccaria? È un anziano uomo devoto, un uomo che prega secondo gli antichi riti. È un uomo che ha sperimentato il luogo, che per lui è il tempio, e passa le sue giornate alternando canto e silenzio. Ma a un certo punto della sua vita si accorge che le sue preghiere sono state udite, che qualcosa in lui e nella realtà attorno a lui è cambiata, ed è stata la preghiera a cambiarla. Tutti noi penseremmo che di questo Zaccaria sia felice, e invece la prova dell’ascolto, la possibilità che la preghiera cambi il nostro mondo, lo turba al punto che per nove mesi smette di parlare, prolungando il suo silenzio come se non potesse mai più sorgere un nuovo canto. A volte le cose a cui non crediamo sono proprio i momenti belli delle nostre esistenze: non li consideriamo reali, ne diffidiamo e rinunciamo a viverli. 

Nove mesi di silenzio, allora. Nove mesi senza canto. E, alla fine, quando nasce suo figlio, che era stato il motivo di tanto intenso pregare, quel silenzio si interrompe, la vita prende il sopravvento e torna la preghiera. Le prime parole che pronuncia Zaccaria, infatti, sono un cantico di benedizione per il suo dio e per suo figlio, entrambi espressione del futuro, della pace e della salvezza che augura al suo popolo. Quel figlio diventerà il famoso Giovanni detto il Battista. 

È vero che il canto si alterna al silenzio. Ma è anche vero che al silenzio segue sempre il canto. 

Quando sono arrivato al Deserto, non ricordavo nemmeno le parole del padrenostro, non avevo mai sentito un salmo cantato, non avevo mai fatto una liturgia delle ore. Mi sono messo soltanto ad ascoltare, il mio silenzio era stato più lungo di nove mesi. I frati durante le celebrazioni ti indicano di continuo le pagine del breviario, che va avanti e indietro, tra inni, salmodie e letture. A poco a poco, dopo qualche giorno, sempre secondo lo stesso strano paradosso, le labbra hanno cominciato ad aprirsi. 

Il canto

Francesco e il suo frate finiscono di pregare e il santo di Assisi, rivolgendosi nuovamente agli uccelli ammutoliti, li esorta a riprendere la parola. Anche stavolta dal silenzio prosegue il canto. 

C’è, però, in questa storia, un curioso trascorso che bisogna ancora riportare, un’intuizione della storica medievista Chiara Frugoni sul rapporto che Francesco aveva con la preghiera. Sempre dopo quel viaggio in Oriente di cui abbiamo accennato, e di certo anche dopo l’episodio degli uccelli, l’Assisiate scrive una lettera ai custodi dei frati minori, in cui li esorta così: «E riguardo alla lode di lui, a tutte le genti dovete annunciare e predicare questo, che ad ogni “ora” e quando suonano le campane, sempre da tutto il popolo siano rese lodi e grazie a Dio onnipotente per tutta la terra». Ancora nella lettera ai reggitori dei popoli: «E dovete dare al Signore tanto onore fra il popolo a voi affidato, che ogni sera un banditore proclami o altro segno annunci che siano rese lodi e grazie all’Onnipotente Signore Iddio da tutto il popolo».

Ecco, secondo Frugoni, nel suo viaggio a Damietta Francesco sarebbe stato influenzato dalla preghiera dei muezzin, dalla fortissima presenza del canto nella vita dei musulmani, e avrebbe voluto portare la loro naturalità spirituale (simile a quella degli uccelli, si direbbe) con sé, nelle consuetudini del suo ordine. Questo rivela che i confini che facciamo tra un credo e l’altro spesso sono solo nostre illusioni; i passaggi sono molto più fluidi, come le acque della laguna di Venezia. 

Acque in cui continuo a tornare periodicamente, abitando con sempre maggiore affetto il luogo, il silenzio e il canto. Ricordando il passaggio di Francesco, i suoi uccelli, il frate che l’aveva accompagnato e quelli che li hanno seguiti. Adesso riesco a pronunciare anche più di qualche verso dei salmi. Ma non ho ancora scoperto se sono stonato.