All’inizio degli anni 2000 il nuovo cinema romeno si è installato nella cultura cinematografica internazionale. Non ha coinvolto più di una nicchia di cinefili duri e puri, certo, ma è stato coccolato dai festival ed è stato spesso frequentato dai distributori che una volta si definivano d’essai, ospite fisso in rassegne e cineforum. Si può dire che tutto sia cominciato nel 2004 con La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu (da noi solo su Fuori orario, se non sbaglio), storia di un poveretto rimbalzato da un pronto soccorso all’altro nel corso di una notte. Il suo autore poi si è un po’ perso per strada, ma le caratteristiche del nuovo cinema romeno erano già tutte lì: uno stile austero (o rigoroso, per usare una parola molto amata dai critici) e antispettacolare, basato in gran parte sul piano-sequenza e i totali; temi duri e sgradevoli (dove la sgradevolezza è aggravata dal grottesco) che alla fine non fanno sconti a nessuno; storie che, denunciando le magagne di una società tra comunismo e postcomunismo, vogliono diventare emblematiche di un generale malessere europeo o della condizione umana. Tra i film romeni arrivati da noi, ce ne sono stati anche con una vena di commedia (A Est di Bucarest di Corneliu Porumboiu), ma nella maggior parte c’è ben poco da ridere. Quando 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu vinse a Cannes nel 2007, i media recepirono solo l’immagine scioccante di un feto abortito, spostando la percezione del cinema romeno verso quell’eurocinema d’autore (von Trier e Lanthimos in primis) che fa dello shock un preciso marchio di fabbrica e strategia spettacolare. Ma Mungiu ha un altro spessore, e lo mostra il suo ultimo film che esce in questa estate avara di titoli decenti. Era a Cannes l’anno scorso ma non ha vinto nulla, al contrario dei titoli precedenti del regista (Oltre le colline, 2012; Un padre, una figlia, 2016), cui non è certo inferiore – anzi. Il titolo originale R.M.N. (ossia “risonanza magnetica”), che si riferisce a una breve sequenza e vorrebbe essere metaforico di un’indagine nel profondo della società, è concettoso e non felicissimo; ma anche Animali selvatici lascia a desiderare, e segnala il tentativo di rendere accessibile il film. Poi certo, invisibili o no, di animali selvatici – nella fattispecie orsi – ce ne sono; ma il tema del film è un altro: l’intolleranza.

Sono veramente prodigiose la drammaturgia e la coreografia architettate da Mungiu, in cui si intrecciano storie private e vicende collettive

Prima, però, una premessa: in un’epoca in cui qualunque regista con ambizioni autoriali usa il formato 1.33:1 (in pratica il 4/3 dei vecchi televisori – se poi il film è anche in bianco e nero, quel regista pensa di avere fatto bingo), predispone bene il fatto che Mungiu usi il formato più largo che ci sia, il “widescreen” 2.35:1. E presto si capisce perché: abbinando in modo sistematico il piano-sequenza con la macchina da presa fissa, il formato largo costringe lo spettatore a esplorare lo schermo, scegliere che cosa vedere, fare da sé il montaggio. In scene come quella del consiglio del paese, sono veramente prodigiose la drammaturgia e la coreografia architettate da Mungiu, in cui si intrecciano storie private e vicende collettive, e ogni intervento, di una persona lontana o vicina (ce ne sono ventisei, in diciassette minuti!), suscita reazioni diverse: tutto di fronte all’occhio fisso e impassibile della cinepresa. È la lezione di Renoir e di Bazin, dell’ambiguità e della crudeltà, attualizzata con grande efficacia.

Animali selvatici, dicevo, parla di cose purtroppo note: un paese della Transilvania, dove convivono con qualche attrito romeni, ungheresi e germanofoni, insorge quando arrivano due operai dello Sri Lanka per lavorare in un panificio. Mungiu da una parte mostra che le dinamiche del razzismo e dello sciovinismo sono uguali ovunque, che le argomentazioni fallaci e l’ottusità mentale prosperano in qualunque contesto e latitudine. Le lamentele e i piagnistei che si sentono rivolgere contro la UE sono gli stessi che fomentano da anni i peggiori politici italiani. Ma nella cronaca, spesso tesissima ed emotivamente insostenibile, di questo inferno dell’idiozia e dell’intolleranza (dove uno spregevole prete cattolico sta dalla parte dei razzisti), Mungiu aggiunge una specificità storico-ambientale. Siamo in una terra di confine e di varie lingue (ignoro come si sia districato il doppiaggio, se c’è stato: sempre inopportuno e dannoso, in questi casi), ai confini dell’Europa. Una terra che usa la Storia come fonte di mitologia, e dove c’è chi è fiero perché i rom sono stati appena scacciati. Un paese lontano, dove però un personaggio può ascoltare la colonna sonora di In the Mood for Love, a proposito di globalizzazione. 

Nel mondo di Mungiu i simboli sono ambivalenti e mai riducibili a un unico significato

E poi ci sono gli orsi. Forse spaventano un bambino che ha perso la favella, e sono censiti da un ricercatore francese (che per farsi capire parla inglese) sbeffeggiato dai locali per il suo ecologismo e disprezzato in quanto foraggiato dalla UE (“In Francia gli orsi li hanno ammazzati per fare le autostrade, e a noi ci vogliono far diventare lo zoo d’Europa”). Ma gli orsi sono anche costumi tradizionali delle feste locali, e utili travestimenti quando si tratta di minacciare un immigrato. Nel mondo di Mungiu i simboli sono ambivalenti e mai riducibili a un unico significato. Ed è ammirevole come gli orsi servano a chiudere il film. Senza volere rovinare la sorpresa, va detto che alla fine si teme che succeda qualcosa di prevedibile, che avvenga una di quelle tragedie che i media definiscono “annunciate”. Invece Mungiu, che non spiega mai tutto e fa bene, alla fine fa scartare il film in modo imprevedibile, quasi fantastico, senza sciogliere nulla, perché non c’è nulla da scogliere. Nessuna catarsi è possibile.