C’è un mio verso che fa: Brutta gente, la letteratura. Questo verso, com’è evidente, non è proprio un verso, ma più uno pseudoaforisma, un po’ spiazza, un po’ diverte, un po’ sfastidia, poi mi chiedono, come se i versi dicessero sempre la verità, e la verità su chi li scrive soprattutto, ma perché, che ti ha fatto, la Letteratura. Una serie di cose me le ha fatte, vediamo. La Letteratura una volta mi disse, senti, Giada, ma tu ci vorresti andare al Premio? Io avevo appena esordito, già non mi pareva vero che se ne fosse parlato, che mi avessero chiamato in tivù, che la vicina mi avesse fermato per le scale: ho visto la tua foto, sul femminile! C’era stata in effetti una sessione casalinga, uno shooting, come si sarebbe detto poi, col fotografo del femminile venuto a prendere degli scatti, tra cui quello passato alla leggenda privata come la foto della tazzina in cui ridi (sarebbe: la foto in cui hai in mano una tazzina vuota e ne ridi, ma con lo zeugma è più icastico e rimanda immediatamente al dagherrotipo). Ecco, mi bastava questo, soprattutto la vicina, perché questa vicina qua era la moglie di F, il medico del terzo piano che subito dopo il mio trasloco al secondo mi aveva soccorso durante un attacco di tachicardia. Per soccorrermi aveva dovuto auscultarmi, per auscultarmi aveva dovuto scostarmi bretelline e scollo, così sudavo e più sudavo più aumentava il battito o non so se ci fosse nesso, certo è che a un certo punto smise di auscultarmi e oltrepassando col braccio di piatto il petto extrasistole frugò in borsa alla ricerca dello sfigmomanometro che per troppo di brillantezza volli chiamare sfigometro senza il minimo effetto, così l’apparir del capezzolino a bella posta occhieggiante. Il Premio, sì. Il Premio, mi disse poi un’altra Letteratura, la Letteratura di Milano, distinta da quella di Roma per l’inferenza che qui siamo tutti amici, ci diamo convegno sulle terrazze vista Pantheon (o alla Feniglia, se nel weekend), lo avrebbe vinto la Letteratura di prima, che me lo aveva proposto, il Premio. Ma come, non si è nemmeno candidata, la Letteratura. Altroché se si era candidata, finì nella cinquina, non vinse, ma io rimasi a bocca asciutta, nonostante le assicurazioni fededegne del minuto prima (io, al Premio? Ma ti pare. Ma no, no, non ci penso nemmeno; ho già parlato con il Capo dei Capi, al Premio ci vai tu).

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Va specificato che la Letteratura era in questo caso un fatto puramente editoriale, perché a parte un immaginario un po’ torbido un po’ melenso, non è che proprio sapesse veramente scrivere, ci metteva dentro troppo lirismo e poca verità, nella scrittura. La verità non è quando racconti i fatti tuoi e nemmeno quando li intrugli nei periodoni con doppio carpiato ipotattico, ma quando fai le cose come nessuno le ha mai fatte, perché le cose che vuoi fare con la scrittura, è proprio tu e solo tu, che le vuoi fare, almeno certe, e quindi non puoi dire la baronessa uscì alle cinque ma nemmeno puoi far schiantare gabbiani sui lidi come proiettili, che è proprio kitsch come immagine, ma vaglielo a spiegare. Io certe volte me li vedo, la Letteratura che pensano, mentre fanno schiantare gabbiani, secondo me questa cosa gli piace. Chi sia questo a cui potrebbe piacere, non si è ancora capito. Trovatemene uno che gli piacciono gabbiani schiantati sulla pagina di un libro tanto da volergli dare un premio. Comunque questa è solo una delle cose che mi ha fatto la Letteratura, ma non è che tutto nasca e muoia coi premi. Un’altra cosa che mi ha fatto la Letteratura è un processo. Un processo, sì. Come dovrei definirlo un contest in cui almeno dieci persone puntano il dito contro qualcuno, chiedendogli ragione delle sue azioni a mitraglietta. Era successo che avessi litigato parecchio animatamente con la Letteratura. Una Letteratura infiammabile, prepotente, forse un filino fascista, nel senso vulgato, chiaro, non è che avesse il busto del Duce in camera o salutasse col braccio teso, che anzi, gli piaceva atteggiarsi a compagno. Però aveva questi modi bulleschi e intimidatori, non si poteva mai contraddire perché altrimenti ci litigavi e poi ti dovevano processare. Ma perché ci sei andata, mi chiedo tutt’ora, quando ci ripenso. Non ho una risposta. Eravamo, ricordo, a casa di una Letteratura che si era offerta di mediare: venite da me, che la risolviamo. Da questa Letteratura in effetti c’era un sacco di spazio, perché le sue case erano due. Una casa che era diventata due o due che erano diventata una, insomma, un sacco di spazio e dei divani di pelle morbidissima. Forse c’erano anche delle patatine e da bere, questo non lo ricordo. Di sicuro non potevamo risolvere un bel niente all’aperitrial perché la Letteratura con cui mi ero accapigliata, non si presentò. Però tutti i convenuti avevano, si scoprì nella requisitoria improvvisata dal PM letterario in assenza del teste principale, qualcosa da rivendicare, Ero troppo (e all’avverbio seguiva qualsiasi aggettivo, anche contradditorio, ciarliera, enigmatica, criptica, spudorata, informata, disinformata, inserita, isolata, manipolabile, sociopatica, e si finiva sempre su polemica, che è il modo della Letteratura di dire rompicoglioni). Io mi ricordo che in quei momenti del processo provavo una strana calma, sentivo che questa gente non ci stava di testa, a mettersi a processare una in nome e per conto con i poteri conferitimi eccetera, e poi era davvero brutta, quella Letteratura. Brutta, brutta esteticamente, mentre io ero caruccetta, mi ero vestita bene come dovessi andare a una festa. La festa che dovevano farmi, la Letteratura.  

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C’era una Letteratura coi capelli lunghissimi e neri lavati non proprio di fresco che diceva è colpa tua, se abbiamo litigato tutti, se non siamo più la Letteratura. A me non risultava, mi risultava invece che con la Letteratura con cui avevo litigato io fossero in grande armonia, e che siccome era anch’essa una Letteratura editoriale, nessuno voleva inimicarsela. Anche questo pensa, la Letteratura di Milano, che a Roma c’è tutta una Letteratura che non vuole inimicarsi dell’altra Letteratura, quindi se ne sta tutta abbottonata, deferente. E soprattutto se ne sta sempre su quelle terrazze a darsi convegno e a spettegolare mentre nell’operosa Milano le terrazze sono verticali la metro passa puntuale e tutti lavorano, invecchiano, qualcuno muore comunque imbruttiscono, la Letteratura, a Milano, anche quando erano stati affascinanti agli esordi. Comunque qua non si lavora o molto di meno, una volta una letteratura universitaria mi disse: voi a Roma fate sempre all’amore. Ora, sempre sempre magari no, c’è anche un tempo in cui scrive, effettivamente, la Letteratura, pure a Roma, dopo le terrazze. E poi non è vero che dice male di tutti, al più ti processa, ma altro non fa e non dice. Apparentemente è tutto un signora mia che piacere, quando s’incontra certa Letteratura, come secondo lo Sgargabonzi i ragazzi down alle sagre.  È politicamente scorretto, lo Sgargabonzi, difatti non è la Letteratura, anche se da quando Giunta lo ha dichiarato, che è la Letteratura, comica, ma pur sempre Letteratura, lo Sgargabonzi, pensa che io lo debba recensire per forza. Giada, hai capito che mi devi recensire, altrimenti che critica sei. C’è anche un’altra Letteratura che me lo dice spesso, che critica sei se non hai letto i miei libri. Quando era ancora vivo mio padre, questa Letteratura che mi disconosce come critica scrisse in terza pagina di aver avuto un’erezione vedendomi a un convegno. Così molto a lungo googlando il mio nome usciva questo link all’erezione della Letteratura come prima occorrenza. Io avevo il terrore che mio padre googlasse, ma se lo fece non me lo disse. Mi disse invece di aver letto che ero una romanziera rosa shocking, in un articolo che parlava di me e di altra Letteratura, tutte donne. Perché non lo quereliamo, gli dissi. Ma no, che ti vuoi querelare, è satira, disse mio padre, chissà se lo avrebbe detto anche dell’erezione letteraria, ma non lo sapremo mai.

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Un’altra cosa spiacevole della Letteratura è essersi ridotta a un fatto di copie che vendi. Tu quante, mi ha chiesto una volta, la Letteratura. No, perché io ormai sto sopra le 50 mila, diceva con sprezzatura, come quelli che ti mostrano la macchina nuova, o il solitario in oro bianco 18k con diamante centrale di 0.50 carati tra un sorriso al prezzemolo e un’olivetta taggiasca. E come me anche x y e z, e me ne nominò una filza che non pensai morte tanti n’avesse disfatti. Io non arrivo a duemila, dissi gonfiando un po’ i dati degli ultimi drammatici rendiconti (numeri da collana di poesia, disse un’altra Letteratura, in un’occasione similare). Non arrivi a? Se lo fece ripetere, la Letteratura, quante copie vendevo, per potermi guardare come avessi la rogna, o anche solo mi puzzassero le ascelle, ho il sudore acido, dissi senza motivo. Ma non te ne importa? Di che? Che non vendi. Mica tanto, mi imbarazza pure, quando dicono “ti ho letto”. Non so cosa rispondere. È come sentirsi dire, bello tuo figlio. Sì, grazie, oppure no guardalo meglio, è un mostro? Cosa puoi dire? Niente, devi dire, di una cosa che hai fatto tu. Sai, anzi, cosa penso, dei miei libri che leggono in pochini? Il meglio sarebbe bruciarli: un momento di distrazione e clic, cancelli tutto. Non divaghiamo, dice la Letteratura ancora sgomenta delle duemila copie farlocche. Ma non sto divagando. È che alla Letteratura che conosco non mi verrebbe mai in mente di chiedere scusa, ma tu quanto vendi. E quanto vende. Immagino poco, nell’ordine delle migliaia pure lei. Non sono bravi, la Letteratura che conosci tu? Infine, un’altra cosa che mi ha fatto la Letteratura, credo l’ultima, è: i pareri editoriali. Io accetto tutto, di te, Letteratura: la tua inanità, la tua venalità, la tua ferocia, i tuoi inciuci, la tua ostentazione, la tua volgarità. Ma i pareri editoriali, positivi o negativi che siano, dicono una cosa sola: che chi fa la Letteratura non sa niente. E non le maree o le supernove, gli acidi e i sali, Federico Barbarossa e la guerra dei trent’anni, strategia K e teoria dei quanti. Non sa la Letteratura, che è come prendere a fare scouting per la Lazio uno che ha giocato qualche volta a freccette nei pub. Brutta gente, la Letteratura, ma non abbiamo la controprova.

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