Il calciomercato all’italiana è ancora oggi, ai tempi della globalizzazione, un racconto sintomatico per capire meglio il paese e la sua unicità economica e sociale fatta di truffe, sotterfugi ed economia premoderna. Poco al passo con i tempi di un calcio algoritmico e di pura finanza.
Il calciatore da comprare e vendere è infatti ormai un prodotto finanziario, una delle principali voci di introiti per una realtà, la squadra e tutta l’economia che ci gira intorno, che non ha nel nostro paese una sua sostenibilità economica e capitali di rischio o investimento a parte i sempre più poveri diritti televisivi. Non bastano gli asset strutturali, fondamentalmente lo stadio, per mantenere in vita una politica di indebitamento che vuole garanzie reali. Servono nuovi mercati dove vendere il brand della squadra o dell’intero campionato, che ha poca attrattiva rispetto agli altri principali campionati europei. Almeno fino a quando i nuovi mercati non comprino tutto, brand e giocatori, come nell’attuale svolta di soft power dell’Arabia Saudita. E il calciatore da smerciare? Un derivato il cui rischio è legato, esattamente come in finanza, alla volatilità. Cosa c‘è di più aleatorio, infatti, dell’atleta che può non esplodere mai o infortunarsi o non ambientarsi o semplicemente sparire? L’investimento sul giovane da scoprire è simile all’investimento in una small cap di borsa: poco capitale, grande possibilità di crescita, rischio contenuto. Su base algoritmica e con molti soldi della Premier, posso poi diversificare l‘investimento su decine di giocatori, renderli di fatto un basket finanziario, una specie di portafoglio o etf e sperare poi che il 5% di loro esploda per future rivendite. Posso anche, se non ho i soldi, comprare i giocatori in leasing, facendomeli prestare con un costo per il riscatto da pagare se, e solo se, giocheranno con continuità. Posso addirittura, avendo i soldi, comprare intere squadre satellite in cui depositare brocchi o promesse.
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