A sentir parlare alcuni di noi critici “radicali”, pare che tutti i disastri ambientali degli ultimi mesi, dal terremoto sui monti dell’Atlante marocchino agli abusi edilizi della Turchia, siano da imputare all’attuale “sistema” capitalistico. Magari fosse così semplice. E poi, quali sono le proposte dei critici sulla gestione del territorio, sulla scelta dei futuri materiali da costruzione e sulla manutenzione delle infrastrutture?

Per fortuna ci sono ancora autori che, pur impiegando gran parte della loro carriera a perfezionare una teoria, cercano anche di esercitarsi nel mestiere del confronto empirico. Anselm Jappe, per esempio, uno degli alfieri della “critica del valore”, sta in questi giorni girando l’Europa, invitato in convegni e conferenze, per parlare di cemento armato.

Partiamo allora dalla sua teoria. L’ipotesi di Jappe è che il cemento sia uno dei tanti «lati concreti dell’astrazione capitalista», e sia “isomorfo” al valore. Anche il cemento infatti è «privo di limiti propri (…) liquido, amorfo, polimorfo: si può colare in qualsiasi stampo»; anche il cemento (armato) ha annientato ogni diversità in una «gigantesca reductio ad unum». E proprio per questo ha giocato «un ruolo fondamentale (…) nell’assassinio delle architetture tradizionali».

L’autore, a cui va riconosciuta la temerarietà di gettarsi nella mischia specialistica, critica anche gli aspetti tecnici del materiale. Analizza il ruolo dell’industria cementizia nelle emissioni di CO2. Discute il noto problema della corrosione dei tondini di acciaio, e stima che la durata degli edifici in cemento armato – la cui manutenzione successiva sarebbe secondo lui assai gravosa – possa aggirarsi intorno ai trent’anni. Questa vita brevis fa del cemento armato un protagonista criminale dell’obsolescenza programmata. I crolli infrastrutturali recenti, infatti, non devono essere ricondotti all’incuria, alla cattiva progettazione o alla speculazione, ma alla natura stessa del materiale, nato per non durare.

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Il suo libro, Cemento. Arma di distruzione di massa (Elèuthera, 2022, trad. di Carlo Milani) e i suoi articoli di questi mesi sono anche un elogio dell’architettura premoderna, e una magnifica descrizione di edifici e materiali antichi. Quando Jappe parla, si intravedono le case del Périgord e dell’Auvergne, i palazzi di Sanaa, i portali trapezoidali incaici, ci si gode un po’ del calore che le pietre da concio hanno «immagazzinato durante la giornata». I muri antichi diventano «spugne che hanno assorbito la vita», e ogni abitazione “vernacolare” una casa piacevolmente infestata: «in tutte le case degne di questo nome abitano gli spettri del passato».

Raramente la critica raggiunge questi risultati di originalità, e il tentativo di Jappe può dirsi riuscito. Eppure, io sono convinto che la critica sia oggi di fronte a problemi difficili da superare. Anzitutto, per quanto buona sia una teoria, per quanto il critico sia in grado di ricondurre ogni particolare a una totalità, il mondo reale, con le sue sottigliezze, resta refrattario a ogni generalizzazione.

Il cemento armato, per esempio, non è così deperibile come sembra.

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