Ogni volta che vengo invitata a un matrimonio, nella mia mente si insinua il dubbio che gli sposalizi degli altri siano uno strumento perverso che la nostra società utilizza per costringerci ad accoppiarci. Al ricevimento, il tavolo dei single, esecrabile prodotto dell’assunto per cui tutte le persone che non hanno un compagno vorrebbero procurarsene uno, ricorda tristemente quello riservato nei pranzi di famiglia ai bambini, che finiscono a mangiare pasta al pomodoro anche quando il menù prevede pesce. Quando sei in coppia, almeno, giochi in squadra: presentarsi con il proprio partner significa avere qualcuno a cui rivolgere la parola di tanto in tanto senza fingere, oltre che disporre di una soluzione pratica ed elegante per dividere il regalo di nozze.
Per questo motivo, la mia principale missione degli ultimi mesi è stata quella di procurarmi un fidanzato entro il primo giugno, data del matrimonio di mia cugina, a cui non posso assolutamente mancare soprattutto perché, appunto, il menù prevede pesce. Per portare a termine il mio obiettivo mi sono comportata esattamente come mi comporto sul lavoro, schedulando tempo ed energie a disposizione per avere la massima resa, evitando di disperdermi con questioni banali e ordinarie come l’innamoramento e la compatibilità sessuale. Le domande a cui cercavo risposta erano semplici, dirette e senza possibilità di soluzioni intermedie. Come te la cavi con gli argomenti di conversazione da terza pagina? Sei in grado di stare seduto composto? Hai un aspetto abbastanza curato da non farmi fare brutta figura con la madre dello sposo?
La mia visione agnostica dei rapporti prevede tentativi ed esperimenti con il mondo dell’amore libero, un’espressione con cui negli anni Settanta si intendeva la possibilità di fare sesso senza dover procreare, e che ora è un ombrello di significati sotto cui si nasconde la stessa insoddisfazione della coppia, abbigliata in modo un po’ diverso. Mi viene in mente The Lobster, il film di Lanthimos ambientato in un futuro distopico in cui i single sono costretti a prestarsi a un mese e mezzo di appuntamenti romantici forzati che hanno come set una versione indesiderabile di un hotel di lusso. Colin Farrell interpreta David, un uomo che è stato recentemente lasciato dalla moglie e che deve reinserirsi nella società trovandosi una nuova compagna, insieme ad altri reietti che, per un motivo esterno – morte del partner, abbandono, tradimento – o personale – timidezza estrema, desiderio di solitudine –, non sono parte di una coppia. Se alla fine la missione accoppiamento dovesse fallire, verranno trasformati in un animale: la scelta di David verterebbe sull’aragosta, perché vive a lungo, e in mare. Affinché gli ospiti si trovino un partner, vengono spinti verso compagni di sventura con cui condividono tratti superficiali come disturbi minori e patologie: un compagno di disgrazie di David è zoppo e punta immediatamente una donna che soffre di epistassi. L’idea è che le persone che si riconoscono simili – e, soprattutto, con fragilità simili – si attraggano: che vedere rispecchiata la propria identità sia un modo sensato e razionale di assicurarsi un’esistenza felice e socialmente sostenibile.
Che l’amore romantico tradizionale si nutra di cliché, gerarchie e pacifica convenienza è ormai una critica socialmente accettata
Ma il protagonista di The Lobster è destinato a incrociare un’altra comunità, altrettanto spietata: quella alternativa dei single che vivono nella foresta, a cui, invece, è preclusa qualsiasi possibilità di contatto intimo con l’altro e l’idea stessa di coppia. È in questa situazione, proprio quando ha perso qualsiasi speranza, che David si innamora. La foresta è l’immagine speculare dell’hotel, il messaggio è piuttosto chiaro: il senso di costrizione annulla qualsiasi impulso, i sentimenti sono, per loro stessa natura, anarchici, incontrollabili, perversi, e, soprattutto, non c’è modo di programmare la felicità.
Che l’amore romantico tradizionale si nutra di cliché, gerarchie e pacifica convenienza è ormai una critica socialmente accettata: dal Contratto Sessuale di Carole Pateman (1988), in cui l’autrice paragona contratto di matrimonio e prostituzione, alle più recenti promesse di un modo nuovo di vivere le relazioni oltre la famiglia patriarcale (fra cui Donna Haraway che suggerisce un modello di solidarietà e affetto interspecie), la coppia eterosessuale è riconosciuta come un modello in crisi, in quanto fondato sulle certezze granitiche che la contemporaneità non può più garantire. Le premesse di chi si percepisce altro dalla norma, tuttavia, sono simili: ci si scambia qualche opinione politica rassicurantemente affine, senza mai mostrare che si hanno dei dubbi né che ci siamo annoiati a morte della calma piatta e della mancanza di scontro. Ci si accoppia solo con simili, solo con quelle persone che corrispondono all’idea che abbiamo di noi stessi, che corroborano il nostro concetto di identità.
Rapportarsi con gli altri significa ricevere un feedback sulla propria persona sociale. Se cerco qualcuno con cui costruire il classico progetto di vita che la società si aspetta da me, se, per dirla con The Lobster, passo per l’hotel delle coppie, devo dimostrare di essere degna della routine monogamica che mi sto per imporre: un lavoro di cui non mi lamento troppo che mi dia un tasso di certezza economica accettabile, pochi sfizi politici, l’età giusta e un aspetto curato secondo gli standard mainstream – ragionevolmente magra, depilata, il portamento di chi fa sport almeno due volte alla settimana e sa mettersi il rossetto. Negli ambienti alternativi, quelli che formano la foresta di Lanthimos, non è poi così diverso. Le eventuali divergenze sono di ordine estetico-politico. I corpi non normati sono preferibili, depilarsi non è necessario. E l’accento è posto sulla comunità: l’obiettivo è reclutare alleati nella lotta contro il sistema eterosessuale e contro l’istituzione matrimoniale generatrice di ingiustizia e dolore per le soggettività secondarie, che vanno protette attraverso la proposta di nuove forme di interazione e di rapporto. Le coppie aperte, la comunità poliamorosa, le serate kinky in cui ci si ritrova per praticare apertamente la propria sessualità in un ambiente protetto, sono pensate per tutelare le soggettività secondarie. Il problema però è che tutti si percepiscono come soggettività secondarie e che tutti, per un motivo o per un altro, hanno come principale obiettivo relazionale quello di essere tutelati. La diversità è un modo come un altro per porsi al centro del rapporto e tutelarsi dalle incertezze, dalle ipotetiche recriminazioni altrui, dalla fragilità dei sentimenti, dalla responsabilità e dalla consapevolezza. E se proprio dobbiamo essere soggetti a un’oppressione, tanto vale che sia esplicita.
Siamo sicuri che sia stata proprio la coppia a deluderci? E se il problema fosse piuttosto la paura dei sentimenti negativi e l’impossibilità di condividerli?
Negli ambienti underground – la foresta, di nuovo – non si può sentire la mancanza di un rapporto di coppia tradizionale, perché questo significherebbe ammettere che si è parte proprio di quel mondo che si cerca di evitare, che si è piccolo-borghesi, ordinari e banali come tutti gli altri. All’interno di questa logica, se qualcosa non va, se ci sentiamo soli, abbandonati, incompleti, se siamo gelosi, è da incolpare il sistema monogamico eterosessuale, non la natura umana, che ci ostiniamo a pensare buona nonostante le guerre, gli stupri rituali e i regali di nozze.
Siamo sicuri che sia stata proprio la coppia a deluderci? E se il problema fosse piuttosto la paura dei sentimenti negativi e l’impossibilità di condividerli? Nonostante tutta la nostra supposta insoddisfazione verso il sistema neoliberista eterosessuale che ci vuole performanti e produttivi, anche nelle ipotesi alternative l’amore continua a essere una questione inevitabile, e strettamente individuale. Per non ammettere che l’amore spesso è un’operazione fallimentare, ripieghiamo verso un sentimento anestetico, orientato unicamente al nostro ego, in modo da proteggerci dall’intensità che sopravvive al distacco, fisico o emotivo, dell’altra parte. Con queste premesse, se avere una relazione non è poi così diverso dall’essere soli, tanto vale rassegnarsi alla pasta al pomodoro.