Il poeta e romanziere Ben Lerner, una delle voci più importanti della letteratura americana contemporanea, sarà ospite di 2084 – Le cose da salvare, festival letterario della Scuola Belleville, sabato 16 settembre alle 21, in dialogo con Claudia Durastanti. Vanni Santoni ha intensamente conversato con lui a distanza, per «Snaporaz», in vista dell’appuntamento. 

Lerner, lei ha pubblicato tre libri di poesia prima di debuttare nel romanzo; poi ha scritto un saggio sulla poesia, Odiare la poesia (Sellerio, come i due romanzi più recenti Nel mondo a venire Topeka School) e da poco negli Stati Uniti è uscito il suo nuovo libro di liriche. Cominciamo dunque dai versi. Lei, in Odiare la poesia, ma anche altrove nelle sue opere, suggerisce che la poesia finisce sempre per deluderci. 

È un fatto tragico, no? Ma può essere visto anche da una prospettiva ottimistica. Il fallimento della poesia nell’acchiappare tutto ciò che vorrebbe, nel creare tutto ciò che potrebbe, diventa un modo per testimoniare che esiste un mondo oltre quello dato; che ci sono possibilità oltre quelle del linguaggio usato come strumento di controllo; che una trascendenza è possibile. 

Se ci pensiamo, anche gli spazi negativi, i fallimenti, i silenzi, hanno un loro potere segreto. Sappiamo che a volte il momento di massima intensità di una conversazione si ha quando la voce si spezza; il momento più importante di un incontro è spesso quel certo momento di silenzio… Lo scontro con l’indicibile può dar vita a cose interessanti, anche quando l’indicibile finisce per trionfare. 

A volte le opere d’arte ci fanno arrabbiare, perché ci diciamo che avrebbero potuto fare di più; oppure capita quando ci sembrano inarrivabili quelle del passato: si guarda sempre al passato poetico e letterario immaginando dozzine di epoche d’oro precedenti, spesso sentendoci inadeguati rispetto a esse, a volte arrivando a sentirci esclusi dalla parte migliore di quell’arte, come se il linguaggio di un tempo potesse fare cose che oggi non può fare. Ovviamente non è così, e si tratta anzi di una nostalgia reazionaria. Come quando viene proclamata la morte della poesia, cosa che accade almeno una volta l’anno. 

la morte del romanzo… Don DeLillo sosteneva che almeno fino agli anni Ottanta il romanzo poteva influenzare “la vita profonda della cultura”.  

Credo che in modo incerto e faticoso la letteratura lo faccia ancora, anche se forse sto articolando una fede più che motivando un’idea. 

Sicuramente il romanzo, nei secoli recenti, ha esercitato un potere maggiore della poesia, che oggi è oggettivamente marginale: la leggono in pochissimi. Questo è un fatto. Tanto il romanzo quanto la poesia sono forze deboli, debolissime rispetto al potere politico e pratico delle multinazionali, alla pervasività quotidiana dei social network, ai grandi canali di notizie eccetera. Ma la loro differenza ontologica rispetto a queste forze è in qualche modo il segno stesso della loro rilevanza. 

Immagino che un romanziere dello spessore di DeLillo, all’apice della sua forza espressiva, in un momento in cui il romanzo faceva più notizia di adesso, potesse avere la sensazione tangibile di avere un potere diretto sulla coscienza collettiva. Ma un piccolo o minuscolo potere di questo tipo esiste sempre, anche quando non è così tangibile, e costituisce sempre e comunque il seme di uno spazio di alterità, ed è quindi uno spazio che, per quanto più piccolo, è più importante di quello imposto e mantenuto dal nemico. 

È vero che un poeta anche bravissimo può avere cinquecento lettori, ed è un numero risibile rispetto alla grandezza di scala di ogni forza avversa, che si parli di Fox News o di una multinazionale che influenza direttamente la politica col suo potere finanziario. Ma per quanto piccolo resta un potere significativo, perché nel suo spazio si coltivano i valori dell’umano. E allora, anche la debolezza della letteratura, che è ancora più marcata se si parla solo di poesia, può diventare uno degli elementi definitori della sua irriducibile alterità. 

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Pure, nel suo romanzo d’esordio, Un uomo di passaggio, si percepisce una certa volontà di satireggiare la poesia. 

Sì, nel mio primo romanzo c’era questo elemento, volevo fare una satira della poesia, del mondo della poesia, e più di ogni cosa delle posture e dei rovelli dei poeti. Ma nonostante tutto ciò, Adam, il mio protagonista, ha una certa fiducia nella poesia: è un devoto di John Ashbery, ne celebra il lavoro, anche se è convinto che non riuscirà mai e poi mai ad avvicinarsi al suo livello. La satira della poesia contenuta nel romanzo, come del resto la critica alla poesia che opero nel mio saggio, mi serve anche per tentare una riflessione sul suo potere politico. I poeti possono intervenire nella storia? Possono avere un ruolo in un mondo in cui pare trionfare solo l’attuale più estremo? C’è chi crede di no. Io invece affermo che, nonostante tutto, la poesia ci permette di creare un “fuori” rispetto al regime dominante delle parole del potere. E questo fuori potrà essere minuscolo quanto si vuole ma, di nuovo, resta essenziale. Se non esistesse, be’ diciamocelo, potremmo anche mandar giù un flacone di barbiturici. Ne consegue che per me la poesia è anche una tecnologia politica: sopravvivere in quanto umani implica attaccare comunque il “negativo”, cercare sempre di creare o liberare territori alternativi. Non è una cosa facile, serve idealismo e si viene sempre e comunque pervasi dal dubbio, se non proprio dalla sindrome dell’impostore. Ma va fatto, altrimenti si è già perso. 

 In Mondo a venire, i personaggi si chiedevano se avesse senso tentare di vivere eticamente quando sei parte di un sistema malato; in Topeka School aleggia un senso di disastro politico. Pure, sono romanzi divertiti e divertenti. Lei è ottimista o pessimista? 

Topeka School è pieno di discorsi pubblici estremi, e ognuno di questi momenti è un momento di disperazione, ma anche di speranza. Anche in Mondo a venire credo ci sia una certa vena di speranza. Ciò detto, personalmente sono incredibilmente pessimista sullo stato della “macropolitica” americana: da un lato abbiamo il folle dada-fascismo di Trump, e dall’altro lato un politico dem vecchia scuola come Biden, così anziano che ogni volta desta continuamente preoccupazione sul suo stesso funzionamento. La sensazione è bizzarra. A livello nazionale, la politica sta mettendo in scena uno spettacolo che ci parla del collasso del linguaggio. 

La letteratura ha il potere, e io credo il dovere, di criticare tutto ciò, di renderci ogni giorno il senso del potere del linguaggio, la possibilità di strutturare nuove forme per abitare la realtà. Se mi chiede, così a bruciapelo: Siamo fottuti?, le dico sì, per un milione di ragioni. Ma non significa che non si debba lottare, anche quando si è così pessimisti. In questi momenti di collasso della lingua si aprono anche delle possibilità espressive e di interconnessione, che saranno poi quelle da cui potrebbe rinascere qualcosa di buono, e sensato. Non abbiamo scelta, e la grandezza di scala in fondo non è importante: va fatto e basta, se non altro per mantenere la fede nel potere del linguaggio. 

Debolezza come forza, significati profondi nel silenzio, e già sentivamo odore di zen. Se poi ci mette anche la fede… Per lei fare poesia è un atto mistico? 

Penso di sì, o almeno lo dico a me stesso – come mi dico, sempre, che è importante farla –: credo, spero, voglio credere che fare poesia sia un’attività mistica. Parte della sua funzione è infatti rinnovare il nostro senso di meraviglia rispetto al potere del linguaggio. Guardiamo anche solo a cosa sta accadendo in questo preciso momento: ci stiamo inviando dei segnali d’aria modulati con quello strano apparato che è la bocca, e degli altrettanto strani apparati ai lati delle nostre teste interpretano quei segnali d’aria come suoni, a cui attribuiamo un significato grazie al linguaggio, e stiamo dialogando, stiamo costruendo significati, se ci pensa è del tutto assurdo, ha del miracoloso… 

La letteratura è uno spazio di rinnovamento e coltivazione del miracolo del linguaggio, e per questo può legittimamente essere definita qualcosa di mistico – ed è pure qualcosa di sociale e politico, dato che genera momenti di intersoggettività e comprensione. E non solo: come saprà bene essendo uno scrittore, quando scriviamo non stiamo semplicemente traducendo in glifi un nostro pensiero, ma siamo anche posseduti dagli spiriti di coloro che abbiamo letto, parliamo con le loro parole, spesso combinate assieme, parliamo noi ma parla in realtà una legione di scrittori e scrittrici. Vivi, e soprattutto morti. Per carità, si sa che per scrivere seriamente non si deve aspettare l’ispirazione ma mettersi al tavolo, e quindi a volte è noioso, a volte può essere addirittura una tortura, ma il risultato resta, comunque, un fatto che ha del miracoloso.  

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Ma il nodo non è solo dimostrativo.

No, perché è un miracolo che assomiglia a un altro miracolo, che è quello di essere al mondo e vivere una vita. Se ci pensiamo, tutto o quasi, nella nostra esperienza sia individuale che collettiva, è socialmente costruito attraverso narrazioni: quando viviamo creiamo storie per organizzare i ricordi, prendiamo decisioni proiettando storie nel futuro, comunichiamo con gli altri sulla base di storie condivise eccetera: il sé, di fatto, si sostiene organizzando diverse contingenze passate, presenti e future in determinate forme narrative. La penso un po’ come Wallace Stevens, per il quale la letteratura rappresenta il potere della mente di ordinare il caos contingente della realtà in qualcosa di fruibile e sensato. Ciò ovviamente non impedisce al mondo di restare instabile e soggetto al cambiamento, il che però è un fatto positivo: la storia cambia, è soggetta a continue mutazioni che dipendono da azioni e decisioni collettive e individuali (ma anche l’individuo agisce in fondo sempre posseduto da una legione di anime, proprio come l’autore scrive sempre posseduto da una legione di altri autori), e anche se è difficile immaginarsi come un’agenzia di mutamento quando ci pensiamo a livello individuale, resta il fatto che esiste una continua mistura di possibilità utopiche e distopiche che ribolle davanti a noi.

In Mondo a venire c’è in effetti un forte accento sull’inconsistenza dell’identità individuale. 

Assolutamente, è uno dei discorsi a cui tengo di più. A volte, specie negli anni Novanta, si sentiva criticare la narrativa postmoderna, molti dicevano che era autoreferenziale, che era “linguaggio per il linguaggio”, un semplice gioco di specchi che impediva alla lingua di entrare nella realtà, nelle cose che contano… Ecco, questo non l’ho mai pensato, ha perfettamente senso che l’identità di un personaggio, anche di un protagonista, abbia una consistenza gassosa, così come ha perfettamente senso che alcuni romanzi mettano in scena la loro stessa costruzione, la loro stessa scrittura, il loro stesso essere pensati, magari dal protagonista medesimo, e questo non è minimamente autoreferenziale, perché scrivere un romanzo non è diverso da essere l’autore della tua esistenza, nella vita in fondo abbiamo un controllo limitato: certo, prendiamo delle decisioni ma siamo sempre condizionati dalla situazione, dalle persone che abbiamo intorno, dal nostro vissuto fino a quel momento, dai pattern – i motivi ricorrenti di azioni, reazioni, incontri ed esperienze, ma anche di immagini o pensieri o impressioni – che abbiamo esperito fino a quel momento, e anche le narrazioni future alterano quelle presenti (esempio: ti fai delle analisi, emerge una malattia, e anche se ancora non ha effetti fisici, ecco che la sua futura esistenza modifica già le relazioni e le azioni a venire). Tutto questo è identico a ciò che avviene quando si scrive un romanzo. Certo, si ha più libertà all’inizio, ma poi, via via che si va avanti, il romanzo diventa sempre più funzione degli elementi messi in campo. Allo stesso modo, l’identità “reale” di un protagonista, così come di una persona che vive la sua vita, muta a seconda delle situazioni, delle condizioni, degli eventi. 

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Lei spesso predilige il pattern rispetto al plot. 

Eh eh, tutti da sempre mi dicono che i miei romanzi sarebbero senza trama. Io li guardo e mi sembra che succeda di tutto, anche perché credo che un buon romanzo debba pure riuscire a catturare momenti ordinari in modo efficace, la testura che ha l’essere vivi in un dato momento, mica può essere fatto solo di scene madri e colpi di scena. Peraltro, per come vedo io la narrativa, il significato, più che esplodere in punti precisi, tende ad agglutinarsi, appunto, su dei pattern, secondo motivi più o meno ricorrenti. Il pattern è forma, e poi è significato: senza pattern, ovvero senza rimandi, ripetizioni, riprese, modulazioni, non si producono quelle forme che generano poi il significato. Va da sé che fare letteratura, o provare a farla, significa anche identificare i pattern e tradirli strategicamente. Lo stesso avviene nella vita: a volte rompere il pattern può essere semplicemente stupido, che so, se una mattina ti sbronzi invece di andare a prendere i tuoi figli a scuola, probabilmente non ne uscirà granché di buono, ma in altri casi, invece, rompere i pattern delle nostre vite è essenziale per far sgorgare nuovi significati e nuovi approcci al mondo. 

Per me, quindi, il metodo di scrittura romanzesca, più che la pianificazione di una trama, prevede cominciare a scrivere, da lì identificare possibili pattern, e poi lavorarci sopra. Quando ho letto l’opera di W.G. Sebald, per citare un autore che credo mi abbia influenzato, ho messo a punto meglio questo pensiero: leggendolo ho avuto l’impressione di una partitura musicale, con motivi, ritornelli, modulazioni… Recentemente ho scritto un racconto, The ferry, in cui c’è un personaggio che non vede pattern da nessuna parte. Sappiamo che vedere pattern ovunque è un tipico segno di psicosi. Ma anche non vederne alcuno può essere drammatico, perché pur senza diventare paranoici o complottisti, la vita degli umani e del mondo tende a organizzarsi attorno ai pattern. Fare letteratura, allora, può essere l’arrivare a usare il patterning dell’opera come un’allegoria efficace di quello della vita. 

Lei si è formato come scrittore presso un master in scrittura creativa e adesso ne è docente a sua volta: anche negli Stati Uniti esiste un pregiudizio rispetto alle scuole? Qual è il suo metodo d’insegnamento? 

Forse meno che da voi, ma una resistenza verso l’insegnamento della scrittura esiste, come del resto esiste una resistenza verso la scrittura in generale, una sorta di ansietà: si può insegnare o no? È giusto o no farlo? Scrivere è un lavoro o un piacere? Per scrivere occorre impegno o ispirazione? Mestiere o genio? Queste ansie, io credo, mostrano in fondo che la letteratura conserva una sua aura. Peraltro a volte le polemiche contro le scuole di scrittura hanno un loro senso: è giusto, io credo, avere una resistenza all’eccessiva istituzionalizzazione della scrittura, come avviene da noi con la “bolla degli MFA” (i master in scrittura creativa, molto diffusi nelle università americane, NdR), ma ovviamente tutto questo non significa che non si possa aiutare qualcuno a diventare uno scrittore o una scrittrice, ad esempio dandogli i libri giusti da leggere. Ricordo bene che un mio insegnante mi diede da leggere Hobbes e Machiavelli, che saranno pure teoreti politici ma sono anche ottimi scrittori, e imparai molto leggendoli: i migliori insegnanti di scrittura, in effetti, erano quelli che teorizzavano poco, ti davano molti libri da leggere e ti prendevano sul serio

Si tratta, io credo, di esporre gli studenti a più libri e approcci possibili, e di creare un ambiente dove scrivere sia divertente ma anche una cosa serissima. E se la si prende sul serio, una classe di scrittura creativa può diventare un’opportunità per costruire insieme valore e senso condiviso. Non c’è e non ci sarà mai consenso su cosa siano la poesia o la prosa, a cosa servano, perché le si studi, perché le si facciano, se si possa veramente insegnare a farle, ma ci sono, e ci saranno sempre, dei momenti di consenso condiviso rispetto a esse – e questi momenti sono poi ciò che dà senso allo scrivere. 

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