L’occasione da cui nasce l’intervista che state per leggere è il nuovo romanzo di Walter Siti: uscito ieri, s’intitola I figli sono finiti, e l’autore sostiene sia il suo ultimo (ma bisogna arrivare alla fine dell’intervista, e alla risposta conclusiva, per capire se è vero). Nel libro, il soggiorno dell’appartamento milanese del protagonista ospita una «poltrona animalier»; ricordo distintamente di essermi seduto su una poltrona dello stesso tipo, nel corso di precedenti visite in casa di Siti. Ma entrando oggi nel suo appartamento milanese per registrare la nostra conversazione cerco invano quella poltrona con lo sguardo. Sembra essere scomparsa. Cosa non si fa per liberarsi dell’autofiction.

«”Ho teorizzato che tutto il mondo stava diventando gay, ora teorizzo che il mondo sta diventando un’immensa borgata; non sarà perché”, pensa il vecchio camminando verso via Vermeer, “mi è mancato il coraggio di ammettere che per me un borgataro gay era diventato tutto il mondo?”»

G. S.: Proviamo ad applicare questo metodo, già enunciato nel Contagio una quindicina di anni fa, al tuo nuovo romanzo, I figli sono finiti. Fin dal titolo sembra l’esito di quella che definirei una ‘passione della fine’ testimoniata dai tuoi libri recenti: Autopsia dell’ossessione, Resistere non serve a niente, Exit strategy, Bruciare tutto  – e mettiamoci pure Il realismo è l’impossibile, e in fondo anche La natura è innocente (innocente «perché non prevede progresso, ma solo morte e rinascita»)…

W. S.: Sì, soprattutto perché alla Natura non gliene importa niente del genere umano, che quindi può finire.  

G. S.: Ecco. Ora esce I figli sono finiti, e lo presenti come il tuo ultimo romanzo… Insomma, posto che figli se ne fanno ancora – pochi, ma si fanno – cosa stai cercando di dirci con questa immagine? Cosa sta finendo per te veramente?

W. S.: Beh, intanto conta la mia vecchiaia, perché io adesso di anni ne ho 77 e si comincia a contare all’incontrario, no? Quindi non più «ne ho 25, 26, 27…», ma piuttosto «me ne mancano al massimo 15, poi 14, poi 13…», eccetera. Quando senti che la tua vita sta finendo è molto umano pensare che allora è meglio che finisca anche tutto il mondo. La sindrome di Mastro Don Gesualdo, fondamentalmente. 

Ma accanto a questo devo ammettere che invece continuo a registrare dentro di me un’enorme curiosità di vedere quello che succede e succederà in seguito, di sapere come va a finire.  Anche perché – e questa non è una cosa strettamente biografica, legata alla mia vecchiaia – ho la sensazione che oggi non ci troviamo di fronte a delle semplici novità, come sempre accade nella storia, ma a un vero e proprio cambiamento di stato, a una mutazione, per capire la quale i parametri ai quali eravamo abituati semplicemente non funzionano più. E quindi quello che credo stia finendo è anche un certo tipo di mondo (e un certo modo di vedere il mondo).

 Continua a girarmi in testa l’idea dell’apprendista stregone: l’uomo ha messo in movimento un apparato tecnologico talmente complesso che a un certo punto gli ha preso o gli sta prendendo la mano, per cui la centralità dell’umano diventa sempre più incerta. Ad esempio, mi ha fatto molta impressione verificare che molti ragazzi che erano andati a sentire il concerto virtuale degli U2 alla Sfera di Las Vegas, con tanto di ologrammi, ne siano usciti entusiasti, come se fosse stato meglio di un concerto reale. Se la tecnologia ti propone un sostituto della realtà che molti giudicano preferibile a quella che noi chiamiamo l’esperienza… Beh allora l’uomo diventa come una specie di ricettore passivo, uno schermo, un apparecchio che registra quello che succede. 

Se è così, il mondo che conoscevo io è veramente finito. Per questo nel mio nuovo romanzo c’è un vecchio e c’è un giovane. Il vecchio è un professore appassionato di letteratura francese che appunto considera finito l’umanesimo e quindi finite le sue radici, la cornice intorno alla quale aveva organizzato la sua vita. Per il giovane invece è scontato che ormai «all’umanesimo ci crede solo Mattarella»; per lui – che ha vent’anni e non può non sperare – sta cominciando qualcosa di nuovo. Crede in una specie di ‘umanità aumentata’, con tutte le integrazioni che la tecnologia può offrire al corpo stesso dell’uomo, e alla sua mente; e di questa transizione si sente e si vuole protagonista, «non devo andare a studiare da Elon Musk, semmai è Elon Musk che deve studiare il mio cervello».

Dal momento che i due protagonisti valutano in modo opposto lo stesso processo storico, sostengo che sembrano «i due estremi della stessa corda».

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G. S.: Però devo dirti che questa enfasi del postumano di cui parli io nei giovani non la vedo come ideologia, come teoria; nei pochi giovani che frequento semmai la noto come prassi, molto irriflessa e caotica. E mi pare che i veri ideologi del postumano siano tutti boomer in realtà…

W. S.: Effettivamente i ragazzi più impegnati con cui parlo sono semmai critici della tecnologia, credono ancora molto nel vecchio impegno politico, nello scendere per le strade. Anche per loro tutta una serie di speranze novecentesche sono finite, però in effetti non teorizzano la propria impotenza.  Nel mio romanzo al vecchio che dice «nel ’68 ci avevamo più o meno creduto che si potesse fare la rivoluzione, poi intorno ai 25 anni abbiamo capito che qui da noi non si poteva fare» il ragazzo risponde «noi l’abbiamo capito a cinque anni».

Ma in ogni caso bisogna sottolineare che il mio protagonista non è un giovane tipico (e a un certo punto un suo amico glielo dice pure: «se questo vecchio che hai conosciuto pensa che sei un ventenne tipico è più matto di te»). Da una parte è un bambino prodigio, quindi anche un po’ un giovane-vecchio; dall’altra viene da una sua esperienza umana traumatica che vuole superare, non ha voglia di provare sentimenti perché ha l’impressione che per lui significhino quasi solo dolore. E quindi l’idea di diventare un robot, che sentimenti non ne ha proprio, per lui risulta quasi terapeutica.

G. S.: In effetti mi pare che nelle ultime cose che hai scritto, accanto a una progettualità di affresco sociale un po’ balzacchiana, agisca una altrettanto balzacchiana revisione critica del personaggio tipico. Una specie di tipizzazione del ‘diverso’, del sopra le righe, come se la società la si potesse capire meglio attraverso l’esplorazione di contrasti profondi. «Mille storie che non racconterò», scrivevi alla fine della Natura è innocente, «perché le più interessanti sarebbero le meno spettacolari»…

W. S.: Credo fosse Baudelaire a notare che in Balzac sono intelligenti anche le portinaie, quindi già nella sua opera i personaggi non sono affatto medi, hanno una coscienza del tempo che attraversano. Lucien de Rubempré capisce come funzionano la letteratura e il mondo letterario più di quello che probabilmente capiva un qualunque giovane provinciale che andava a Parigi per fare fortuna. Mi piace creare personaggi come palloni aerostatici: mandi il personaggio per aria e lo fai volare un pochino più in alto degli altri, in modo che lui da lassù possa capire un po’ meglio quello che sta succedendo. E considera anche che da sempre la vita media, vissuta mediamente, a me fa venire il latte alle ginocchia.  

G. S.: Mentre il personaggio del vecchio suona piuttosto familiare a chi conosce i tuoi romanzi, quello del giovane è nuovo. Forse nell’infanzia complicata ricorda un po’ Andrea, il bambino di Bruciare tutto.

W. S.: Certo, sì. I ‘miei’ bambini sono tutti prodigio, non so perché. I bambini normali, appunto, non mi interessano.

G. S.: Ad ogni modo, questo tuo giovane non somiglia ai ventenni che si trovano nei romanzi italiani di oggi. Nemmeno quando a scrivere questi romanzi sono appunto i ventenni. Singolare questo ragazzo lo è già nel nome: Astore.

W. S.: Essendo un ragazzo anomalo, volevo che fosse anomalo anche il nome: antico, medievale, strano. Volevo poi che cominciasse per A, come Augusto, che è il nome del vecchio. Infine mi ha condizionato una ragione stupidamente sentimentale: Astore era il nome di un ragazzo che ho conosciuto a Pisa quando avevo vent’anni, uno dei primi di cui mi sono innamorato (adesso è un settantenne ancora bello, con la barba bianca).  

G. S.: Gli astori sono uccelli rapaci, se ne trovano di «celestiali», cioè angelici, nella Commedia. Ma il tuo ragazzo ha poco di angelico e nulla di predatorio…

W. S.: Però vive nell’aria, credo.

G. S.: «Due risposte sbagliate alla stessa domanda», così definisci nel romanzo il vecchio e il giovane. Ma la domanda esattamente qual è?

W. S.: «Che fare, se quello in cui credevamo sembra non avere più validità?». La domanda è questa. Per il vecchio la risposta sostanzialmente è: morire. Cioè, fare il vedovo, rifugiarsi nella letteratura, nella pornografia – tutti modi per ritirarsi dal mondo.  Oppure, stranamente, innamorarsi, anche se è una cosa che lui non vorrebbe, perché significa ricominciare tutto da capo. Ed è curioso che tra il settantenne e il ventenne a innamorarsi sia il settantenne.

La risposta del giovane alla stessa domanda è invece: fare un salto ulteriore, rifugiarsi direttamente nell’utopia tecnologica, per cui per esempio se l’aria diventerà sempre più irrespirabile non servirà provare a tornare indietro, meglio direttamente modificare con delle macchine i nostri polmoni in modo che possano tranquillamente respirare il carbonio.  

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G. S.: Opposti estremismi, quindi. E a proposito, scivolando sul piano della lingua: non so se questo sarà davvero il tuo ultimo, però mi pare un romanzo estremo, anche in senso formale: porta a cottura il tuo stile degli ultimi anni, in cui un alto tasso di realismo, e di lessico attuale, incontra il massimo di visionarietà, di metafora. 

W. S.: A queste cose non ho molto pensato. La cosa a cui sono stato attento è la velocità. Mi piaceva che in questo romanzo le frasi non dessero al lettore momenti di requie, che scorresse tutto a una rapidità tale per cui il lettore deve assolutamente stare sul pezzo, perché sennò si perde. Ad esempio ho usato le parentesi come scorciatoie, diradato le subordinate. Credo di avere abbassato abbastanza il livello di letterarietà dello stile, portandolo sempre di più verso il parlato. Ho diminuito il tasso di lirismo. Ho usato una quantità di anglicismi abnorme rispetto ai libri precedenti; parlando di tecnologie, di ventenni, eccetera, era abbastanza inevitabile, credo, ma quando me ne sono accorto invece di attenuare il fenomeno l’ho accentuato.

G. S.: Mi colpisce sentirti parlare di abbassamento del tasso di letterarietà, perché in realtà I figli sono finiti resta molto denso dal punto di vista figurale. Semmai c’è meno saggismo, meno riflessione esplicita rispetto al tuo solito.

W. S.: Sì, l’impianto teorico l’ho sciolto nel mito, nei personaggi e nella trama. Ho scelto quello piuttosto che fare una pippa di tre pagine in cui spieghi le cose.  

G. S.: Tra parentesi: siamo sicuri che ci sia ancora un lettore per questa letteratura, per questa narrativa ‘densa’, con molte cose dentro? Mi pare che ci stiamo socialmente attestando sull’ascolto di un modo di scrivere e raccontare molto più piatto, magari narratologicamente astuto ma stilisticamente povero, senza particolari ambizioni che non siano `«raccontare storie». Possibilmente «forti».

W. S.: Beh, credo che effettivamente sia finito un certo modo di intendere la letteratura, quello schilleriano, che inizia nel Settecento; un’arte che incarna nei personaggi delle idee, e vuole essere in qualche modo formativa, nutriente per la testa, educativa. Oddìo, la letteratura non è mai stata più didattica di oggi, ma appunto, una cosa è l’arte didattica, un’altra quella educatrice. Didattica è quella letteratura propriamente didascalica, in cui il narratore ti dice come stare bene al mondo (e ovviamente uno si stufa dopo cinque pagine). Educatrice quella che mette il lettore in una situazione per cui deve imparare delle cose che lo scrittore stesso non sa completamente, ma che impara pian piano scrivendo. Forse non c’è niente di male se adesso e per un secolo o due questo tipo di letteratura diventa una cosa riconosciuta e conservata solo da un po’ di gente, come facevano i monaci con i manoscritti antichi, e poi magari torna buona fra tre o quattro secoli.

G. S.: Torniamo ai Figli sono finiti, e passiamo a un terzo personaggio importante: Franco Canepari, escort e bodybuilder. Qui siamo propriamente alla variazione (ma estremistica, ancora una volta) sul tema. Un tuo tema: uomini dall’identità sessuale e dalla psicologia incerta, rivestiti di muscoli sferici, che una volta fornivano una valida alternativa al mondo, mentre adesso…

W. S.: Sì, materia mia. A dire il vero stavolta un bodybuilder non volevo mettercelo. Ma poi scrivendo ho pensato che in questo viaggio di liquidazione personale, di temi e di vitalità, che per me è stato piuttosto duro, in questo viaggio un corpo come quello di Franco mi avrebbe fatto compagnia. E mi sarebbe stato anche utile per risolvere uno snodo narrativo importante che poi nel libro ha preso sempre più spazio.  

Ma la cosa che mi ha deciso davvero è stata la possibilità di far capire al lettore che questo non era uno dei miei tanti culturisti, ma decisamente l’ultimo. Per questo è il più grosso, il più imprenditoriale e insieme più incerto di tutti, quello che fa la peggior fine, eccetera.

G. S.: Vediamo meglio lo snodo narrativo cui alludi, almeno per come l’ho interpretato io. C’è una simmetria che lega il padre di Astore e Franco, e successivamente anche Rino e Augusto, come se ne venissero contagiati. Si tratta di quella particolare perversione sessuale, si può dire masochista, che spinge a desiderare il proprio oggetto d’amore mentre ha un rapporto con altri partner; anzi, più precisamente che spinge a osservare da una posizione passiva e degradante l’oggetto amato nel momento in cui ha relazioni con altri partner dominanti e umilianti.

Ora, questo fantasma psichico trova nel tuo libro due soluzioni narrative. Una, concreta, per cui il padre di Astore e Franco il culturista si riconoscono nella categoria pornografica del cuckold. L’altra, simbolica, allude al mito di Pasifae, posseduta dal toro sacro sotto gli occhi del marito Minosse. Da questa unione nascerà il Minotauro (ed è a Creta, regno di Minosse e isola del Minotaturo, che il romanzo finisce).

Perché hai scelto questo schema? Cosa significa a livello storico o antropologico? Cosa ci dice dell’oggi, e cosa di te personalmente?  

W. S.: Partendo dall’oggi, mi pare che l’empowerment femminile, diciamo così, sia diventato centrale; e che quindi questa storia a cui sono stato abituato da ragazzo, per cui l’uomo possiede e la donna si fa possedere, l’uomo è cacciatore e la donna è seduttrice, eccetera, si sta a rovesciando, forse anche giustamente. Senza che si capisse esattamente chi è il carnefice e chi la vittima, volevo che nel romanzo ci fosse una donna che umilia un uomo (che a sua volta desidera essere umiliato). Nello schema che ho scelto si rovescia anche la consuetudine razzista: nei video cuckold e nel mio libro gli umilianti sono sempre i neri, gli umiliati i bianchi. 

G. S.: Mmh, non so se credere a questa tua versione. O meglio: è vero che l’empowerment femminile che rovescia l’umiliazione e la sottomissione sul maschile rappresenta una novità contemporanea, però è anche vero che questo schema nella tua testa conosce attestazioni molto antiche. Nella introduzione a Tutti i nomi di Ercole, la raccolta di racconti che hai pubblicato un paio di anni fa, accenni a un tuo fantasma infantile fondatore, ed è quello di una Madre potente spiata dal figlio in una notte estiva, dietro una sottile parete di cannici, mentre tortura e sottomette un Padre muscoloso ma fragile…

W. S.: Sì. Nella mia immaginazione, tra i genitori l’essere forte è sempre stato mia madre, l’essere debole mio padre. Credo traspaia anche da Troppi paradisi, e da alcune altre mie cose, insomma.

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G. S.: Andiamo allora all’altra estremità del mito, quella che dai genitori porta al figlio, e cioè dalla coppia Minosse/Pasifae al Minotauro: mostruoso incrocio fra uomo e bestia, e tra natura e cultura (la maschera, il labirinto, la vacca artificiale che Dedalo ha costruito per fecondare Pasifae). Evocata anche dalla copertina di I figli sono finiti, quella del Minotauro è l’immagine verso cui mi pare convergano i due principali temi del romanzo. Da un lato l’ibridazione tra umanità e tecnica (che per Astore è un ideale e per Augusto è una condanna); dall’altro la violenza, il conflitto tra generazioni – perché nel mito il Minotauro uccide e divora ciclicamente i giovani ateniesi, ed è a sua volta ucciso da un giovane (Teseo, col concorso di Arianna). 

Sembrano incrociarsi un livello di storia collettiva – quello dei giovani che oggi dicono ai padri e ai nonni «ci avete rubato il futuro», quindi in sostanza ci uccidete, ci rubate la vita – e uno privato, più tuo. Quello cui accenni nella nota finale, quando affermi che uccidere un giovane o essere ucciso da un giovane è la storia sempre uguale che i tuoi romanzi raccontano.

W. S.: Aggiungerei una cosa: il Minotauro allude anche a quell’aspetto dell’intelligenza artificiale che in un certo senso ‘divora’, succhia la vita delle persone, assorbendone i dati personali, le informazioni che diamo alla rete anche quando non sappiamo di farlo.

G. S.: Allora aggiungo una cosa anch’io. Nessuno lo sa meglio di te, però forse è giusto ricordare che questo mito di uccidere un giovane o esserne ucciso costituisce l’ossessione pasoliniana per eccellenza – c’è in quasi ogni opera Pasolini abbia scritto o girato.

W. S.: Sì. E credo che Pasolini mi abbia interessato tanto anche per questo. 

Quanto al desiderio di uccidere un bambino, ho sempre pensato che fosse un grande desiderio di uccidere me, bambino. Infatti i bambini dei miei libri mi somigliano sempre molto, no? Subiscono tutti un po’ il calvario dell’intelligenza, della precocità, anche sessuale; il calvario che ho vissuto io quando ho cominciato a leggere a tre anni e sono andato a scuola, e la maestra non mi faceva lezioni come agli altri, ma giocava a scacchi con me. E tra l’altro credo di averlo sempre pensato, che se volevo diventare grande il bambino dentro di me lo dovevo ammazzare.

L’altra cosa invece, quella dell’essere ucciso da un giovane, per me personalmente si specifica in ‘essere ucciso da un culturista’, e forse anche quella è un po’ pasoliniana: significa spingere il sesso all’estremo. Cosa si può fare di più che uccidere ed essere uccisi?  C’è un bel racconto di Tennessee Williams su un omosessuale che comincia a frequentare una sala massaggi dove un massaggiatore nero molto nerboruto gli fa dei trattamenti sempre più violenti, e lui ci prende gusto e ci torna apposta, finché dal massaggio si passa a vere e proprie torture, di cui il protagonista diventa goloso, fino addirittura a un episodio di cannibalismo (come in Improvvisamente l’estate scorsa, sempre di Williams). Io questo schema l’ho sempre visto in quella chiave lì, come trascrizione del piacere di essere uccisi dalla tua stessa brama sessuale, del farsi mangiare dall’essere che tu desideri. Col difetto che se tu uccidi qualcuno o ne sei ucciso il gioco finisce; come dice Sade, bisognerebbe poter uccidere infinite volte la stessa persona per arrivare a provare una vera soddisfazione.  

G. S.: Il riferimento a questi fantasmi si trova in uno strano ‘elenco delle fonti’ con cui I figli sono finiti si chiude: strano, voglio dire, perché tecnicamente non contiene fonti. L’ultimo aneddoto della serie – non so se è vero o te lo sei inventato – mi pare adatto per salutarci. «Alessandro Manzoni, ormai vecchio, raccontò al suo biografo un sogno ricorrente. Sta pranzando a una grande tavolata con molti amici e la prima moglie Enrichetta Blondel, seduta al suo fianco. D’improvviso entra uno sconosciuto che gli punta il dito e accusa con aria severa: “voi siete un impostore!”. Manzoni allora si rivolge alla moglie: “Enrichetta, tu che mi conosci bene, di’ per favore a quest’uomo che si sbaglia”. Enrichetta lo guarda con dolce imbarazzo e risponde: “io non avrei mai voluto dirtelo, ma se tu ora sollevi la questione, ebbene sì, Sandro, sei un impostore”».

W. S.: L’aneddoto è autentico, l’ho trovato in una biografia manzoniana scritta forse da Bonghi, e l’ho usata come un piccolo gioco. Immaginando questo romanzo come il mio ultimo, mi piaceva che l’ultima parola del mio ultimo romanzo fosse «impostore». 

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