Doveva certamente esserci una linea di destino scritta negli astri che presiedettero alla nascita di George Andrew Romero, il 4 febbraio del 1940, a New York, nel Bronx, sotto il segno dell’Acquario. L’uomo che a un certo momento della sua esistenza inciampò nell’ossimoro dei “morti viventi” che ne avrebbero orientato il percorso artistico in maniera determinante, in una visione teleologica, fu, su questa Terra, sostanzialmente per suscitare l’epica cinematografica che gli è legata a mo’ di nodo scorsoio. Per ridare vita alla morte, per far uscire dai sepolcri dei Lazzari famelici che come “mostri” riapparvero per “mostrare”, etimologicamente, qualcosa. In questo Cristo laico, un “Cristone” di origini cubane, nato nel ghetto, si incarnò un Verbo creatore, pronto a scatenare contro l’Uomo un flagello che in principio poteva sembrare una orrenda dannazione ma che, alla fine, andò via via assumendo sempre più scopertamente i tratti di una redenzione. Di una purificazione.

Partiamo, dunque, dalla fine, dalla morte: Romero, sei anni fa al momento in cui scrivo, il 16 luglio del 2017, terminava la propria esistenza a Pittsburgh, dove sempre visse e operò, lasciando una ricca e frastagliata serie di scritti, che era andato componendo nel corso degli anni e che avrebbero dovuto costituire un romanzo, a conclusione e compimento di ciò che sullo schermo, nei film realizzati sui morti vivi, egli non era riuscito né a compiere né a concludere. Il libro, The Living Dead, sarebbe poi stato pubblicato, elaborando questi appunti, da Daniel Kraus

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