C’è una falsa idea riguardo alla rappresentazione della realtà al cinema. Si dice che i Lumière abbiano inventato la realtà, che realizzavano documentari. E all’opposto c’era Méliès, che realizzava invece opere di finzione ed era un sognatore impegnato a filmare fantasticherie. Io penso esattamente il contrario. 

Forse è in questo passaggio frettolosamente dimenticato de La Chinoise (1967) che si nasconde una delle chiavi per comprendere alcuni degli aspetti fondamentali del cinema di Jean-Luc Godard. Perché quello operato dal cineasta franco-svizzero, scomparso il 13 settembre 2022 dopo essere ricorso al suicidio assistito, non fu solamente un tentativo di rivoluzionare la forma e il linguaggio quanto di cambiare un intero paradigma di pensiero. In altre parole: trovare un nuovo modo di creare e leggere le immagini. Come, in fondo, già mostrava perfettamente la sua attività di critico per i Cahiers du cinéma: è anche grazie a lui che generazioni di studiosi o appassionati hanno imparato a guardare con altri occhi i film di Rossellini o di Nicholas Ray. 

Più di Chabrol, più di Rohmer, più di Rivette, più dell’amico e poi nemico Truffaut – che per lui scrisse il soggetto del capolavoro d’esordio, À bout de souffle (1960) –, Godard è stato il cineasta simbolo della Nouvelle vague, il movimento che ha dato il via ai grandi cambiamenti occorsi nel cinema tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta (New Hollywood compresa): dallo snellimento dell’apparato tecnico alla consacrazione del ruolo quasi demiurgico dell’autore, fino alla diffusione di un nuovo modo di ritrarre la realtà privilegiando contemporaneamente la concretezza degli spazi e l’intimità delle persone che li abitano. Di tutto ciò Godard è stato promotore ma anche critico, ne ha gettato le basi per poi prenderne parzialmente le distanze. Nel suo cinema in costante trasformazione

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