La pesanteur morale nous fait tomber vers le haut.

Simone Weil, La Pesanteur et la Grâce

Ho iniziato a seguire il sollevamento pesi su YouTube, per caso, recuperando eventi di cinque, dieci anni fa. Quando ho esaurito le playlist disponibili sono passata allo streaming di tutte le gare che trovavo, notando sempre la stessa cosa: gli italiani sono più belli degli altri da guardare. L’impressione, che ho scambiato all’inizio per l’effetto di un tifo ingenuo e infantile, è in realtà un’evidenza sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, al punto che la nazionale di sollevamento olimpico sta attirando la curiosità di molti, disposti anche a venire a vedere con i propri occhi qual è il segreto di questa squadra.

Ho iniziato invece a praticare il sollevamento olimpico perché avevo deciso che uno sport che si basa sulla capacità di gestire alti carichi e sulla preparazione e percezione del corpo che serve per farlo, fosse la soluzione definitiva a un problema eterno di gestione dei miei carichi personali, oscillando, per indole sbagliata o poca forza di volontà, tra momenti di cedimento sotto il peso delle cose e fasi di vuoto, di spreco delle forze per grandi quantità di niente.

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Le prime volte ho avuto paura a ogni singola alzata, convinta che la riuscita di uno strappo e di uno slancio dipendessero esclusivamente dalla convinzione di farcela o non farcela, e io, di solito, non ce la faccio. Questo il mio corpo lo sa, e, non avendo testato per anni un massimale 100% a cui fare riferimento, ogni movimento, ogni alzata era terrore. Niente era mai stato molto pesante o poco pesante, pesantissimo ma sostenibile o così leggero da non accorgermene. C’era un peso, un macigno che mi schiacciava e contro cui mi ostinavo come Sisifo, e un’assenza totale di peso, il vuoto cosmico (“il corpo non mi serve nemmeno più perché non ci sono azioni che posso fare, non esistono resistenze, galleggio”).

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Sono venuta a Roma insieme a Gaia con lo scopo preciso di osservare come la nazionale italiana di sollevamento olimpico si allena, ma soprattutto come sono le persone che seguo sui social, che guardo quando gareggiano. Poche settimane fa gli azzurri del weightlifting sono rientrati dagli Europei con una valanga di medaglie (sedici in totale: cinque ori, sette argenti, quattro bronzi), nonostante l’assenza per infortunio di Nino Pizzolato. Ora sono in preparazione per il Grand Prix dell’Avana, la seconda tappa di qualificazione per le Olimpiadi di Parigi 2024, che inizierà l’8 giugno. La squadra si allena dalle tre alle quattro volte al giorno: sono professionisti dello sport, ragazzi con un lavoro che richiede una serie non indifferente di sacrifici e scelte drastiche. Vengono quasi tutti dai gruppi sportivi militari, tranne Lucrezia Magistris, che adesso è iscritta a Medicina e agli Europei si è portata dietro il libro per studiare. Per tutti le modalità di avvicinamento a uno sport che pochi conoscono si riducono a due sole occasioni: la passione di un genitore tramandata ai figli (più precisamente, di un padre tramandata alle figlie: è il caso di Lucrezia e di Giulia Miserendino), oppure l’incontro con specialisti del sollevamento durante i primi anni di scuola, come è successo a Giulia Imperio (che arriva dall’atletica leggera) e Nino Pizzolato, che nel giro di pochissimo tempo è passato da zero a vincere i campionati italiani. I ragazzi – si dica ancora ragazzi, anche se professionisti, restano dei ventenni sorridenti che si fanno scherzi durante gli allenamenti – della nazionale di sollevamento olimpico (e credo che il discorso resti valido per tutti i ragazzi che oggi fanno sport agonistico di alto livello) conducono una vita completamente diversa da quella dei loro coetanei, tanto per l’importanza intrinseca della performance sportiva, mentre nel mondo social stanno cercando di convincerci che la performance non abbia tutto questo valore, quanto per la cura del corpo, macchina perfetta di cui hanno bisogno per vincere, ovvero per lavorare e garantirsi un futuro.

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Sono venuta a vedere il Team Italia perché credo che questi ragazzi andranno lontano, che le tre medaglie delle ultime Olimpiadi siano state il la per una squadra ormai pronta a esplodere. Ma sono soprattutto venuta a conoscere le personalità che si nascondono dietro le facce da atleti esperti, alcuni dei quali detentori di record mondiali. La modestia non dona ai fuoriclasse, mi ha detto Nino Pizzolato, che sulla carta ha ventisette anni, ma ha lo sguardo di chi ha vissuto cento vite. Nino viene da un paesino di Trapani, ha iniziato per caso, c’è stato un contatto con un allenatore a scuola, per dei giochi studenteschi, poi ha fatto il record italiano e si è trasferito a Roma, aveva diciassette anni. Adesso, dieci anni dopo, bronzo olimpico, non oro per un pelo, a Tokyo, dopo il suo record del mondo, 217 kg di slancio a Tirana, si è seduto sui dischi, si è guardato intorno con una mano poggiata sulle cosce. Nino Pizzolato è tra gli uomini più forti del mondo, e lo sa benissimo, sembra che della vita, e della vita dentro il Centro di preparazione olimpica (CPO), lui sappia già tutto. Sarà un buon allenatore, quando finirà la carriera e se vorrà, gli dice Pietro Roca, uno dei tecnici della nazionale. 

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Il motivo di questo incredibile exploit del Team Italia si chiama Sebastiano Corbu, il direttore tecnico della nazionale. In sette anni ha migliorato l’efficienza dinamica degli atleti, ha selezionato i tecnici, ha cambiato il modo di allenare e soprattutto sta investendo su atleti che restino performanti a lungo termine (Pietro Roca dice che qui non è come in Cina, non abbiamo le palestre piene di sollevatori, gli atleti dobbiamo curarceli e non spremerli), con un occhio dedicato esclusivamente alla tecnica, e l’altro a tenere la squadra e la federazione come una macchina in cui ogni ingranaggio funziona perfettamente, e mentre mangiamo mima gli ingranaggi con le mani, dopo gli allenamenti dei suoi ragazzi si è allenato lui, da solo, non riesce a rinunciare a questo sport neanche ora che fa il tecnico. 

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Il sollevamento olimpico si inizia a bilanciere vuoto – si inizia sempre a bilanciere vuoto, anche i ragazzi della nazionale partono da un bilanciere senza dischi: 15 kg per le donne e 20 kg per gli uomini. Poi si comincia a caricare, si fanno delle serie di avvicinamento fino ad arrivare alla percentuale che il coach ha deciso per quell’esercizio, un intervallo che va dal 70 all’85% considerando come 100% un massimale testato, 1-RM, l’ultima rep che puoi fare con un certo peso prima di rischiare di cedere, e quindi di farti male.

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Ci sono molti modi per testare un massimale, alcuni si basano addirittura sui battiti del cuore: quando ti avvicini a un carico che conosci poco o che non conosci affatto, un carico che mette il tuo corpo in allarme perché, se la differenza tra 100 e 101 sembra minuscola, può diventare la discriminante tra un’alzata valida e un’alzata nulla, e quando sei, insomma, intorno o oltre il 100% su cui ti sei allenato, i battiti aumentano, perché hai paura, perché non conosci il peso. 

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Il sollevamento olimpico è uno sport di testa, uno sport di riflessione e anche ad alto tasso metaforico, perché – oltre alle facili metafore che riuscirei a imbastire credendomi Carrère e trattando il weightlifting come Carrère tratta lo yoga – mettersi davanti a un bilanciere con un tot di chili e studiare il modo per riuscire a sollevarlo sopra la testa, dominarlo, mandarlo oltre, gestirlo, ha molto a che fare con i pesi metaforici e con i pensieri, e meno con l’acciaio, la magnesite, le mani aperte dalle ferite. Contribuiscono a rendere il sollevamento olimpico uno sport dell’uno contro se stesso anche le competizioni: sono eventi molto performativi in cui l’atleta è solo su una pedana davanti a tre giudici e ha tre possibilità per dimostrare di essere più forte di sé e degli altri, con gli allenatori che lo aspettano a bordo pedana, i più sensibili, come sono i nostri, attenti a ogni loro reazione per non far deconcentrare il sollevatore o la sollevatrice. Se non si arriva all’incastro, se il bilanciere prende il giro e cade all’indietro, se il gomito si piega, se non si tiene la schiena e ci si accartoccia, l’alzata è nulla. Quando la prima alzata è nulla conta solo come l’atleta reagisce e come i tecnici gestiscono un inizio del genere. Giulia Imperio e Nino Pizzolato si arrabbiano, si concentrano, fanno gli occhi piccoli piccoli come a voler tenere nella visuale solo il bilanciere. Lucrezia Magistris invece resta composta, serissima, ha lo sguardo di una persona che cataloga tutte le alzate della sua vita per indovinare come sarà la successiva. Giulia Miserendino va verso il bilanciere sapendo già di essere tra le donne più forti del mondo, ha uno strappo preferito, me lo fa vedere mentre beviamo un caffè al bar del CPO, è il secondo strappo dei Mondiali di Bogotà: sul bilanciere ci sono 110 kg, lei si avvicina buttando fuori l’aria dalla bocca, non guarda nessuno, si setta, in un secondo il bilanciere è sopra la sua testa e lei scoppia a piangere. Lascia la pedana fierissima con gli occhi lucidi: lo strappo è bellissimo, poche sbavature, è un PR (personal record).

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Lo strappo (lo snatch) è il gesto atletico per eccellenza, in cui si esprimono nella loro forma migliore forza ed esplosività: l’atleta stacca il bilanciere da terra, gli imprime una spinta verso l’alto con le gambe, e mentre il bilanciere sale, l’atleta arriva a un punto di massima estensione per poi andare sotto al bilanciere, pronto a riceverlo in accosciata, continuo a ripeterlo a Gaia, chiedendole di fare foto a tutto, di registrare l’efficienza di ogni muscolo dei ragazzi più forti del mondo, il prodigio della forza fisica che non serve a niente, non serve a distruggere, non serve a spostare oggetti, serve solo a dominare un peso e portarselo sopra la testa e dirsi lo so fare, e ce l’ho fatta. 

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Assisto, mentre ho rinunciato a prendere appunti per questo reportage per concentrarmi su movimenti che non so quante altre volte riuscirò a osservare dal vivo, a un’intervista a Giulia Imperio, attualmente una star del weightlifting – ha fan in tutto il mondo e 354k follower –, in cui le viene domandato se qualcuno l’abbia mai ostacolata nel suo percorso (c’era un sottotesto: visto che fai uno sport maschile, visto che sei donna) e lei risponde – come se la domanda fosse fuori contesto – di no, dice di avere sempre avuto l’appoggio di tutti, e io la guardo pensando che è al di fuori, tutti i ragazzi sono al di fuori delle diatribe social di questi tempi, sono lontani, sono altrove, hanno davanti Parigi 2024 e tutte le microazioni che servono per avvicinarsi il più possibile al risultato desiderato.

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La frenesia di iniziare a spingere bilancieri sopra la mia testa si è scontrata spesso con pregiudizi di genere che riconoscono nel sollevamento olimpico uno sport “da maschi” perché fa diventare “enormi” e fa perdere la caratteristica a cui dovrei essere più legata in quanto donna, la “femminilità”. Io non mi sono mai sentita meno donna mentre mi allenavo, e anzi, più guardavo le ragazze della nazionale, più sentivo che stavo facendo una cosa perfettamente in linea con il mio corpo, che diventavo più forte, più pronta, più strutturata, più mobile: più io. Ho passato i trent’anni, eppure mi sento addosso l’emozione di conoscere atlete ventenni che considero come modelli di resistenza femminile agli stereotipi. Il loro gesto atletico è senza compromessi, si spinge al di sopra di ogni pregiudizio. 

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