«Come lavora Michele? Senza sceneggiatura. Con attori improvvisati che recitano se stessi con disinvoltura e in totale identificazione con le problematiche del film. O, se si vuole, del non-film, se così possiamo definire un lavoro che cresce nel farsi, senza un inizio e una fine, dove i protagonisti usano il cinema come strumento di autoanalisi». Il Michele di cui si parla è Michele Apicella, il più celebre degli alter ego morettiani. Il discorso viene invece pronunciato all’inizio di Sogni d’oro, l’ultimo film di rodaggio prima della piena maturità espressiva raggiunta da Moretti nei successivi Bianca e La messa è finita. A trent’anni di distanza, sembra un’efficace sintesi creativa della prima metà della carriera del regista, quella che indusse la critica a coniare il termine “morettismo” per via dei suoi elementi più facilmente riconoscibili: la sospensione tra autobiografia e sogno, le maschere tragiche e grottesche, il temperamento mercuriale e nevrotico, le battute folgoranti, il narcisismo esibito e teatrale, la frattura tra la saldezza degli ideali e la perdita delle illusioni («Non ci sto capendo niente, forse ho sbagliato ideologia!», lamentava in Io sono un autarchico), la piena identificazione con Leopardi per via – come si dice ancora in Sogni d’oro – della sua «tensione tra pessimismo e progressismo». Un cinema al quale lo stesso Moretti avrebbe abdicato nel nuovo millennio, ripiegando in un intimismo forse più dolente eppure talvolta enfatico e predicatorio, tant’è che sia ne La stanza del figlio che in Habemus papam il regista/interprete non ha più bisogno del «cinema come strumento di autoanalisi» ma si cuce addirittura per lui i panni dello psicoanalista. 

Il sol dell’avvenire è stato ovunque salutato proprio come un ritorno al “morettismo”.

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