Concediamo pure che si tratti di un epos moderno, di una narrazione mitica che, programmaticamente, è tale, considerata l’enfasi con cui note di produzione e di regia insistono sul concetto di un’“odissea” attualizzata ai giorni nostri e alla nostra civiltà. Aggiungendo, semmai, che più che al nostos, al viaggio di ritorno dell’eroe che venne detto “dall’ingegno versatile”, l’avventura portata sullo schermo da Matteo Garrone in Io capitano, parrebbe avvicinabile, se nel perimetro delle cose classiche volessimo restare, all’impresa di Giasone alla conquista del Vello d’Oro. Perché di conquiste il film tratta, attraverso un cammino iniziatico che comporta il superamento di prove (leggi: insidie, agguati, tranelli, patimenti e vessazioni), al fine di raggiungere quello che, riportando i simboli alla realtà e in ultima sintesi, è la consapevolezza di sé. Il discorso non cambia quand’anche dai riferimenti mitologico-epici, si passi a ragionare in termini di fiaba, giusto per legare e spiegare Garrone a, e con Garrone, come fa chi legge linee di continuità tra Io capitano e il pregresso Pinocchio; Colchide o Paese dei Balocchi che sia, la meta ideale porta al medesimo concetto: il protagonista, l’occhio e la mente tesi a un traguardo, va scoprendo se stesso, evolve, si specifica, si compie. Uno schema che, senza affatto forzare le cose e cambiato quel poco che c’è da cambiare, mi pare sostanziasse già il cammino di Marcello Fonte in DogmanIo capitano prende le mosse da una tradizione orale, ovvero dai racconti dei migranti che dal Sud del mondo intraprendono il viaggio della speranza in direzione del Settentrione, là dove scintilla la Stella Polare di un sogno.

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