Pascal scrisse nei suoi Pensieri che tutta l’infelicità degli esseri umani proviene dal «non saper restare tranquilli in una stanza» e, considerando che nel Seicento i moderni open space del settore terziario – se non direttamente il terziario stesso – erano ancora lontani dal venire al mondo, dobbiamo quanto meno dargli atto di una certa lungimiranza. In tempi più recenti, per restare tranquilli in una stanza abbiamo iniziato a pagarla, quella stanza; la sempre maggiore esternalizzazione (per non dire precarizzazione) del lavoro creativo e intellettuale ha generato il fenomeno dei coworking: spazi dove tanti aspiranti pascaliani freelance pagano una quota mensile o annuale per poter lavorare in un luogo attrezzato e lasciare una buona volta l’amato e odiato divano.
Se il coworking fosse l’Impressionismo, il suo Claude Monet sarebbe un’azienda nata a New York nel 2010 e diventata presto la principale affittuaria dell’intera Manhattan. WeWork non ha mai voluto giocare secondo le regole degli altri, ammantandosi di una retorica tra il millenaristico e il New Age a cui probabilmente credeva davvero: per buona parte della sua esistenza la sua missione dichiarata è stata «elevare la coscienza del mondo», un obiettivo più da Scientology che da startup immobiliare. Eppure le cose, per un po’, sono andate molto bene: WeWork ha offerto spazi attrezzati, moderni, con sale riunioni, postazioni comode e snack con caffè, e i lavoratori del Duemila ci si sono buttati. Nel 2022, la società gestiva contratti d’affitto a lungo termine per quattro milioni di metri quadri di superficie divisi in 779 città di 39 Paesi del mondo, e il lettering del suo logo su un palazzo era diventato un simbolo della new economy.
Ma non tutte le storie felici hanno un lieto fine, e in queste settimane si è sentito parlare di WeWork per la sua richiesta di bancarotta secondo il Chapter 11 statunitense:
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