Nella sua storia, la ricerca psicologica e psicodinamica, procedendo per prove ed errori, ha scandagliato il significato e le conseguenze, le cause occasionali e le cause reali, le cause efficienti e quelle finali di ogni tipo di relazione. Se alla psicologia si deve riconoscere un merito, e un’utilità sociale e individuale, è quello di toglierci definitivamente il lusso di un’innocenza puerile e maldestra, perché ci svela in ogni atto di cui siamo oggetto e soggetto motivazioni secondarie, implicazioni virtuose o rischiose. Come sa chiunque attraversi le forche caudine di una psicoterapia ben strutturata, e come sospetta ogni madre che vive in questo secolo di saperi stratificati, niente di quello che facciamo con le persone che amiamo è privo di conseguenze.

Il banco di esercizio di questa mappatura delle responsabilità relazionali è stata la disamina della famiglia tradizionale, e ancor più la disamina di tutte le trasformazioni che ha attraversato la famiglia tradizionale. Il sapere psicologico e psicodinamico si è costruito nelle terapie e nelle ricerche con bambini figli di genitori che si tradivano, bambini figli di padri abbandonati, bambini adottati, bambini che hanno scoperto che la mamma ha una relazione omosessuale, e via di seguito – passando anche per la disamina di genitori che si interrogano sul proprio essere e sul loro essere genitori nel momento in cui si separano, nel momento in cui avvertono di avere sentimenti ambivalenti verso i figli, nel momento in cui hanno un figlio da un’amante e uno da una moglie. Di contro, la psicologia ha ampiamente esplorato il costo emotivo e relazionale di famiglie asfittiche, famiglie dove il desiderio da qualche parte si dice ma in nessun luogo si realizza: la psicologia sa come è essere figli di madri frustrate per un lavoro mancato, e come agisce la fantasia di un tradimento desiderato ma non consumato (l’angosciosa sicurezza dei matrimoni bianchi e devitalizzati). 

Da una parte si saluta il testo e le posizioni in esso contenute, con sollievo, dall’altra lo si guarda con una certa perplessità

Quando arriva dunque un libro come Dare la vita (Mondadori, 2024) di Michela Murgia, una raccolta postuma dei suoi pensieri e delle sue posizioni rispetto alla possibilità di legami familiari non convenzionali, e non conseguenti alla relazione familiare tradizionale, dove si ragiona su un modo di stare nel campo degli affetti svincolato dai legami di sangue ma vincolato da scelte elettive, da una parte si saluta il testo e le posizioni in esso contenute, con sollievo, dall’altra lo si guarda con una certa perplessità.

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