Conviene fare una premessa etimologica, ancorché pedante. “Orrore” è termine in rapporto con l’antico verbo latino horrere, che evocava primariamente l’ergersi delle spighe di grano nei campi, un sedimento del fondo agreste della lingua, nella sua fase più arcaica. Simile immagine, molto concreta, che suggeriva un concetto di feconda e ubertosa quiete, nello spettacolo delle colture biondeggianti, traslata a indicare il drizzarsi dei peli sul corpo, finì per significare, all’opposto, il ribrezzo, l’orripilazione di fronte a qualcosa tale da “mettere i brividi”. Nel linguaggio corrente, “orrore” è tutto ciò che suscita raccapriccio, repulsione, spavento, nel più lato dei sensi. In letteratura e soprattutto nel cinema, questo sentimento si è ulteriormente specificato, legandosi solidamente all’idea del “mostro”, di cui, sempre l’etimo latino, ci rammenta che esso è tale poiché mostra (quia monstrat) qualcosa, ovvero: rimanda ad altro, lo allude e lo addita. È un segno, un monito prodigioso.

 Ho come l’impressione che questo memento nel cinema dell’orrore dei nostri giorni, penso soprattutto agli ultimi dieci anni, torni utile per cercare di capirne lo stato dell’arte. Beninteso: sono decine i film dell’orrore che continuano a essere realizzati, a catena di montaggio, con l’unico scopo di perpetuare una fenomenologia, diciamo così, classica, tradizionale, retorica, in cui il mostro non si presta a diventare cavallo di Troia di alcunché, rimandando, solo a se stesso. Si potrebbero, in egual misura, citare i film sui morti viventi, così come le storie che chiamano in causa il Serpente antico e le sue operazioni di invasamento e possessione: il Demonio, questo conosciuto… Idem per dimore infestate o sulle quali pendono arcane maledizioni oltretombali.

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