[Questo intervento è il testo di una conferenza tenuta al Colegio Nacional di Città del Messico il 5 aprile 2024]
I.
Nel 1961, su «Tempi moderni», Italo Calvino pubblicava un saggio, La «belle époque» inaspettata, che comincia così:
Quindici anni fa prevedevamo tutto, tranne che una cosa: che il mondo sarebbe entrato in una fase di “belle époque”. C’è il boom economico, un’aria di cuccagna, ciascuno bada ai suoi interessi. Quella intransigente tensione ideale che ieri animava propositi e azioni (buone o cattive che fossero) di uomini di governo e intellettuali, ora ha ceduto il posto a un modo di parlare e agire più possibilista e utilitario. Tutti, apertamente o sotto sotto, sono convinti che questa cuccagna durerà chissà quanto, anzi (e questo è tipico di ogni “belle époque”) che non finirà mai. C’è sì la guerra fredda che non è finita, e continuano anche alcuni spargimenti di sangue locali, ma la gente che è al riparo li guarda come grandinate estive in un giorno di sole.
Chi era la “gente” di cui parla Calvino? Non era tutta la società italiana, perché non è vero che la cuccagna c’era per tutti allo stesso modo, in Italia e a maggior ragione altrove (del resto Calvino ne era consapevole se poco dopo scriveva “l’immagine della folla stracciata e affamata fuori dalla porta del festino fa proprio parte dell’iconografia classica della ‘belle époque’”); ma soprattutto non è vero che tutta la società nel 1961 badava ai propri interessi. All’inizio degli anni Sessanta la partecipazione politica era vivissima; la Storia esisteva ancora nel senso enfatico, maiuscolo del termine, avendo ancora la forma della grande guerra novecentesca che, nella prima metà del secolo, aveva contrapposto il liberalismo, il fascismo e il comunismo, cioè i tre modelli di società che avevano cercato di organizzare la vita delle masse prodotte dalla rivoluzione industriale e demografica moderna. Dal 1945, dopo la sconfitta del fascismo,
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